17 gennaio 2018

Virginia in viaggio

I diari di viaggio sono una tra le forme di scrittura che mi affascinano di più. Quando a questo genere letterario si accompagna il nome di Virginia Woolf, non c’è altro da fare se non lasciarsi incantare. 
La lettura di quest’ultima settimana è l’edizione Mattioli (come sono belle!) Diari di viaggio in Italia e in Europa, una raccolta di brani che, come scrivono le traduttrici F. Cosi e A. Repossi, Woolf non aveva pensato per la pubblicazione e di conseguenza conservano la loro frammentarietà, spontaneità e la freschezza della “brutta copia”. I viaggi oggetto di questa raccolta di pagine diaristiche toccano la Grecia e la Turchia, l’Italia, l’Olanda, la Germania e l’Austria, la Francia e la sezione per me più commovente, «Qui è rimasto qualcosa di noi», interamente dedicata alla Gran Bretagna. Commovente perché i luoghi di Virginia sono luoghi che ho visto, e i tratti del suo pennello fatto di verbo li rievocano con una forza sorprendente, in un ricordo che non è affatto sbiadito dal tempo, bensì forse ancora più luminoso, grazie al contributo delle parole e della nostra mente, pronta ad afferrarle e a rielaborarle. 
Non a caso, citando i luoghi più rappresentativi della Cornovaglia – St. Michael’s Mount e Lizard Point – la stessa scrittrice osserva: «dato che le caratteristiche del paesaggio non sono cambiate in dieci anni, né in mille, il mutamento dev’essere nel mio punto di vista e non nel profilo del territorio». Nella trattazione del Norfolk il linguaggio di Virginia si fa quanto mai visivo: «vedo un muro, colorato come un’albicocca al sole, con tocchi di rosso. Il profilo e gli angoli del tetto e dell’alto camino sono saturi di puro cielo azzurro […]. È il tipo di azzurro che, per una ragione che riesco a malapena a spiegare, mi fa capire perché si dice che “goccioli” dalle ali di un uccello in volo». Su Rye: «penso a tutti i vaghi profumi e alla frescura di una sera di campagna che si riversano sul nostro corpo» e poi «le nuvole […] diventano lenzuoli stracciati dai bordi logori appesi sul paesaggio, che riempiono tutta l’aria di luci e tenebre differenti». 
Di grande interesse, nell’arco dell’intero libro, è notare come la scrittura di Virginia muti e si evolva. Lei stessa afferma: «mi piacerebbe scrivere non soltanto con l’occhio, ma con la mente; e scoprire la realtà delle cose al di là delle apparenze» – questa “scoperta” si realizza, nella prima parte della raccolta, che risale al primo decennio del Novecento, attraverso descrizioni fluide e dettagliate, dolcissime; e nell’ultima parte, composta negli anni Trenta, in frasi lapidarie, di una manciata di parole, che tuttavia, susseguendosi l’una all’altra e a volte prive persino del verbo, formano una sequenza di immagini abbacinanti di significato e di pienezza. Di Heidelberg, per esempio, si legge: «Grande fioritura di rododendri. Ancora caldo e azzurro. E il fiume come una lamina di vetro che si muove». E ti ritornano davanti agli occhi, immediatamente, il profilo delle rovine del castello, le stradicciole della città, la poesia del Neckar.

13 gennaio 2018

La melodia di Vienna

Complici le giornate di riposo della settimana della feste, ho finito La melodia di Vienna, il romanzo più solenne dello scrittore austriaco Ernst Lothar (1890-1974). Il libro, che ho letto nell’edizione e/o (2017) con traduzione di Marina Bistolfi, è un magnifico esempio di racconto di una saga familiare, che si snoda attraverso i diversi piani della grande casa al Numero 10 di Seilerstätte, a Vienna. I due personaggi principali, Henriette e Hans, sono madre e figlio e rappresentano, ciascuno a proprio modo, lo scarto dai valori fondanti dell’etica austriaca, con l’incapacità quasi patologica di adeguarsi alle regole non dette, alla precisione, alle convenzioni della ricca e irreprensibile borghesia lavoratrice. 
L’arco temporale attraversato da questa storia prende il via in piena età imperiale, nel 1888, quando Vienna è ancora il centro di un mondo di lusso e di splendori, ancorché nascostamente fragile; è l’età di Francesco Giuseppe – il padre della patria – e del sogno di un’Austria multietnica e transnazionale, utopia perfetta degli stati uniti d’Europa. Mentre Henriette soffre, invecchia, partorisce e i suoi figli crescono, l’Austria intraprende l’inesorabile sentiero della sua caduta: la prima guerra mondiale ne è metafora eclatante, e la famiglia degli Alt ne affronta le conseguenze con ostinata incapacità di comprendere, mentre il giovane Hans si allontana sempre di più dal nucleo familiare – in primo luogo la fabbrica di pianoforti – per scoprirsi sempre più incapace di adeguarsi alla vita che lo circonda. 
Gli ultimi capitoli testimoniano l’avvento del nazismo e la scomparsa definitiva dell’ideale mitteleuropeo: l’esperienza di lettura di questo libro è particolarmente bella nel prendere atto di come, insieme al tempo storico, anche la scrittura si modifichi, trasformandosi da lieta e leggera a gradualmente più cupa e meditativa, con straordinari brani di introspezione e di riflessione politica. I suoi temi principali sono quelli della grande scrittura austriaca dell’epoca (penso, in particolare, a Musil e Schnitzler, qui più volte citato): l’inettitudine dell’individuo a cospetto della gigantesca macchina burocratica dell’impero; la costante sofferenza psicologica; l’inarrestabile cupio dissolvi che induce i personaggi (fittizi, nonché storici, come il principe Rodolfo) alla tentazione del suicidio. «Hans faceva parte di coloro che non si univano agli altri. […] lui, “uomo senza qualità”, conosceva la misura della sua inibizione, del suo essere radicato nell’Austria. Aveva scoperto che il suo ardente “patriottismo” non era affatto una questione di orgoglio ferito che non gli permetteva di vivere in un Paese umiliato e sconfitto fino all’annientamento, bensì una questione esistenziale. […] riteneva l’Austria qualcosa di più di un bel Paese: per lui era l’idea della convivenza tra individui di sentimenti diversi, quindi la salvezza del mondo».

6 gennaio 2018

Libri in forma di serie TV

Buon anno nuovo, cari lettori! Il post inaugurale del 2018 è dedicato a un aspetto particolare della narrazione letteraria, che negli ultimi anni, anche grazie all’affermazione e alla diffusione di nuove produzioni e di una nuova sensibilità per il genere, ha sempre più di frequente trovato una reintepretazione nella forma della serie televisiva. In ragione della mia formazione e della mia storia professionale, Ipsa Legit si occupa soprattutto della letteratura di lingua inglese, ed è di una manciata di serie tv in inglese (alcune di queste viste per la prima volta durante le vacanze di Natale) che vorrei scrivere in questo lungo post.
Voglio cominciare con Nord e sud, tratto dall’omonimo romanzo di Elizabeth Gaskell. Negli ultimi anni, uno degli eventi ad aver determinato una crescita esponenziale dell’interesse del pubblico per l’autrice è stata indubbiamente questa miniserie in quattro puntate, trasmessa in Gran Bretagna su BBC nel 2004. Questa produzione televisiva, con la regia di Brian Percival e la sceneggiatura di Sandy Welch, riscosse un successo enorme e fu decretata “Best Drama of the Year” con il 49,4% dei voti degli spettatori. Una reazione molto simile ha suscitato nel nostro paese, quando il canale televisivo LaEffe (allora in chiaro) ne ha trasmesso la versione in italiano. Questo adattamento merita di essere studiato con attenzione, sia nelle sue aderenze che nelle sue differenze rispetto al romanzo, perché rielabora molto bene l’aspetto trasgressivo e combattivo della scrittura gaskelliana. Nel novembre del 2004 un articolo di Hywel Williams uscito sul Guardian («The north’s gone south») sottolineò il fatto che con Gaskell si definì la divulgazione dell’idea della separazione tra il nord e il sud dell’Inghilterra; il trauma di questa differenza è visibilissimo nel volto di Daniela Denby-Ashe (Margaret Hale) quando entra per la prima volta in fabbrica. Le sue parole: «Credo di aver visto l’inferno – è bianco, bianco come la neve», che non sono tratte dal romanzo ma sono opera della sceneggiatrice, dimostrano il valore che un adattamento può rivelare anche quando non segue pedissequamente l’opera originale. Meno appropriata, a mio parere, la scena di poco seguente, quando Richard Armitage (John Thornton) picchia selvaggiamente l’operaio sorpreso a fumare in fabbrica: Gaskell non avrebbe assegnato un simile comportamento al proprio personaggio, che agli occhi dei suoi lettori deve apparire sempre e comunque – nonostante le difficoltà e le origini familiari – un gentiluomo. Un’altra interessante aggiunta della miniserie rispetto al romanzo è data dalla sequenza ambientata alla Great Exhibition (episodio 3), perché fornisce un’importantissima iconografia del Vittorianesimo; per la stessa ragione sono cruciali le scene che comprendono treni e stazioni, perché le innovazioni portate in Inghilterra dalla ferrovia sono un motivo narrativo fondamentale nella scrittura di Elizabeth Gaskell (si vedano per esempio Cranford o Cousin Phillis). Ma la sequenza più controversa in termini di differenze con il romanzo è senza dubbio quella finale: l’improbabilissimo bacio tra Thornton e Margaret alla stazione ha destato molte critiche da parte degli addetti ai lavori (è stata definita «un disastro» e «un finale perfetto per una soap opera»); di contro, ha raccolto il 52,2% dei voti dei telespettatori come “Favourite Moment” di tutta la stagione televisiva BBC di quell’anno. Innescando così la formazione di un mito. 
La seconda serie che vorrei descrivere (almeno nelle mie reazioni) è Anne, tratta dal romanzo Anna dai capelli rossi di Lucy Maud Montgomery e disponibile su Netflix. La prima stagione – l’unica finora, ma una seconda è in preparazione – è composta da sette episodi e comincia nel momento in cui Anne arriva a Green Gables, casa dei Cuthbert, per chiudersi in un momento piuttosto critico della loro vita in comune. L’ultimo episodio termina infatti con un cliffhanger che ci ha lasciati ancora più curiosi di vedere il seguito. Le mie impressioni sui personaggi sono molto positive per quanto riguarda Matthew e Marilla, che ho trovato davvero vicini ai loro originali letterari; diversa da come me lo aspettavo, ma interpretata benissimo anche la figura di Gilbert Blythe. Il giudizio sulla protagonista, a cui ha dato il volto la giovanissima attrice irlandese Amybeth McNulty (nata nel 2001), è stato oscillante dal principio alla fine: ossuta e plain al punto giusto e con un colore di capelli perfetto per la parte, Amybeth ha saputo dare vita molto bene ai facili entusiasmi sognanti di Anne, ma sono state forse un po’ troppo accentuate le sue crisi emotive, che talvolta mi sono sembrate ripetitive. D’altro canto, l’enfasi che la serie ha voluto imprimere al tremendo passato di Anne (sconosciuto al lettore nei suoi dettagli) giustifica senza possibilità di replica anche la personalità così turbata e le reazioni iperboliche della protagonista, costantemente minacciata dal terrore dell’abbandono. Una nota di merito speciale va alla sigla iniziale e all’ambientazione: la serie è stata girata in gran parte sull’Isola del Principe Edoardo (dove Montgomery visse e in cui si svolge la saga di Anne), che riemerge sullo schermo in tutto il commovente fascino delle sue campagne distese al sole, lo scintillio del mare, la dolcezza dei fiori di melo, la fragranza delle spighe scricchiolanti mosse dal vento. 
Altrettanta bellezza mi aspettavo nella miniserie trasmessa in Gran Bretagna il 26, 27 e 28 dicembre scorso, Little Women, tratta dal romanzo di Louisa May Alcott. Al contrario, benché l’ambientazione fosse molto bella, con l’attenzione per la luce che ormai abbiamo imparato a riconoscere come tipica delle recenti produzioni BBC, la reazione che ne ho avuto è stata purtroppo di una grande delusione. Forse è dipesa da un cast che ho trovato poco adeguato (a eccezione dei magnifici Angela Lansbury e Michael Gambon), forse da una colonna sonora insufficiente, o forse dal fatto che la narrazione si è trascinata avanti pedissequa, priva di guizzi di luce e di sobbalzi emotivi originali. È pur vero che una reinterpretazione per lo schermo dovrebbe innanzitutto rimanere fedele al testo; ma se non presenta nemmeno una scintilla di innovazione, o l’esito di un ragionamento compiuto sul testo stesso in chiave contemporanea o comunque individuale, secondo me non ha ragione di esistere. Il libro sarà sempre il modo migliore di fruire di una storia: se il film o la serie tv che ne vengono tratti non offrono un contributo rafforzativo al racconto (attraverso un’immagine, l’espressione di un viso, i suoni o altro), è meglio continuare ad affidarci unicamente alle pagine della letteratura. 
Sempre nel corso di queste vacanze ho potuto invece, finalmente, godere di un vero capolavoro del genere, Howards End, tratto dall’omonimo romanzo di E. M. Forster. Del libro ho parlato diffusamente in questo post e devo dire che la serie, in quattro episodi (andati in onda su BBC a novembre 2017), ha saputo scavare dentro questa importantissima opera letteraria e riportarne alla luce ogni singolo aspetto, fino ai non detti del suo sottotesto, sin dalle prime scene – addirittura a partire dalla sigla di testa. I due attori protagonisti, Hayley Atwell e Matthew Macfayden, hanno entrambi un “passato austeniano”: lei, nel ruolo di Mary Crawford, è stata la sola nota felice del malriuscito sceneggiato Mansfield Park; lui, l’ottimo Mr. Darcy di Pride & Prejudice di Joe Wright. In Howards End offrono entrambi un’interpretazione straordinaria, che in ogni singolo gesto e ogni singola parola (la voce di Macfayden è ormai leggendaria…) riprende i significati del libro, restituendo tuttavia un’anima innovativa rispetto allo stesso e al bellissimo film di James Ivory del 1992. Una trasposizione di cui non si poteva fare a meno e che merita di essere rivista, anche per poter godere di nuovo della pura bellezza delle case e degli arredamenti, dei prati della campagna, dei treni a vapore e delle panchine affacciate sui profili di Westminster, dall’altra parte del fiume.