30 dicembre 2018

Libri di fine 2018

Cari lettori, questo è l’ultimo post del 2018, un anno durante il quale posso affermare di aver letto tanti libri davvero belli. Tra questi ci sono La melodia di Vienna di Ernst Lothar, una serie di letture woolfiane (tra tutte segnalo la biografia del nipote Quentin Bell, Virginia Woolf, mia zia), The Master di Colm Tóibín e The Clockmaker’s Daughter di Kate Morton. In questi giorni finali, complici le vacanze scolastiche, ho scoperto altre gradevolissime letture, che mi hanno accompagnata verso e durante il Natale, come One Day in December di Josie Silver (Penguin) e Un delitto inglese di Cyril Hare (Sellerio), che mi ha permesso di rispettare la mia personale tradizione del “leggere in giallo” durante le feste. 
Questo librino, che appartiene alla Golden Age della letteratura del mistero, fu pubblicato per la prima volta nel 1951 ed è ambientato proprio nell’immediato secondo dopoguerra. Oltre allo stile limpidissimo, degno di Agatha Christie, si distingue per l’intelligente associazione della vicenda narrata con l’evoluzione della società britannica del tempo, in un paesaggio splendidamente classico (la tipica dimora di campagna menzionata da T. S. Eliot quale caratteristica imprescindibile di una buona detective story) coperto dalla neve durante le feste di Natale. Per restare in tema giallo, ho appena iniziato Morte di un giovane di belle speranze di Jessica Fellowes (Neri Pozza, secondo capitolo della saga dei “Delitti Mitford”).
Finora, tuttavia, la lettura delle vacanze più interessante è stato un saggio, Questa nostra Italia di Corrado Augias (Einaudi). Il libro è un percorso nel tempo e nello spazio, che attraversa le maggiori città italiane per raccontarne le vicende più incisive e intrecciarle sia con la storia del Paese (in particolare il secondo Novecento) sia con la cronaca autobiografica. Contiene riflessioni sullo spirito nazionale, sulla nostra strana relazione con il passato e con le nostre tragedie, sulla scuola, sulla democrazia, sulla politica, sulla nostra lingua e letteratura, e naturalmente sulla nostra geografia, che sembra comprendere e contenere la nostra stessa identità, «nelle città e nei borghi, nelle campagne e nei castelli, nelle pieghe del tempo e nell’ombra di certi passaggi dimenticati. Se si scruta con attenzione, talvolta si riesce a vederla balenare. […] Ogni città italiana, comprese le minime, è uno spazio in cui si è trasfuso e condensato il tempo».
Spero che anche il prossimo anno riserverà a me, come a voi, tante indimenticabili sorprese letterarie, che possano farci compagnia tra una stagione e l’altra, regalandoci, come sempre, tanto da imparare e fortissimi moti del cuore. Auguri!

28 novembre 2018

The Clockmaker's Daughter, l'ultimo romanzo di Kate Morton

Negli ultimi giorni ho finalmente trovato la giusta tranquillità per godermi il più recente romanzo di Kate Morton, uscito a settembre. Di questa scrittrice ho letto tutti i libri, dal suo esordio The House at Riverton, passando per The Forgotten Garden, The Distant Hours (fino ad ora il mio preferito) e The Secret Keeper, fino a The Lake House. Ho aspettato per mesi che Kate Morton finisse di scrivere la sua ultima opera – ed è molto piacevole seguire le varie fasi della stesura e della pubblicazione sul suo diario Instagram – e ora che il libro è finito sono felice di poter dire che valeva davvero la pena attenderlo. 
The Clockmaker’s Daughter (in italiano il titolo è stato tradotto in La donna del ritratto) è un grande libro, di quelli che trascinano il lettore al centro del loro vortice, distraendolo da tutto ciò che resta fuori dalle pagine. Chiudendo l’ultimo capitolo mi sono chiesta come riesca questa autrice, un libro dopo l’altro, a migliorare così fortemente la propria scrittura e la propria abilità di gestione della struttura narrativa. Se infatti The Lake House era apparso un po’ più semplice e “accessibile” dei precedenti, con The Clockmaker’s Daughter Morton torna agli altissimi livelli di The Secret Keeper, e addirittura si spinge oltre, coraggiosamente, e lascia dietro di sé i limiti della sequenzialità temporale tradizionale per inoltrarsi in una narrazione sofisticata e travolgente. 
Questo libro, infatti, si costruisce e si genera dall’intreccio di piani temporali diversi, che continuano a intersecarsi e che rappresentano la rivoluzione scientifica in atto nel passaggio tra diciannovesimo e ventesimo secolo. La molteplicità dei piani storici consente all’autrice di portare sulla scena numerosi personaggi, di cui seguiamo con passione le lunghe storie individuali, consapevoli e fiduciosi che alla fine i pezzi del puzzle si riuniranno in una trionfale conclusione (e Morton non ci delude). La presentazione di tali personaggi è del tutto atipica: ci vengono introdotti lentamente, a tratti distinti, prima riempiendoci di dubbi e straniamento e poi esprimendosi in tutta la loro potenzialità quando già ci siamo affezionati a loro. 
Kate Morton a Francoforte
(Foto: IpsaLegit 2015)
Con la sua solita, splendida, ricercata, musicale ed evocativa lingua inglese, la scrittrice ci regala un sapiente ritratto completo di tutte le sfumature della cultura tardovittoriana, concentrandosi in particolare sull’affascinante ruolo della fotografia, che rappresenta con insistenza il valore dei ricordi – cifra principale della scrittura di Morton –; non è un caso infatti che la voce narrante continui a ripetere «I remember everything». 
La sensazione che ho avuto è che Morton pare recuperare, in questo libro, tutte le idee dei suoi romanzi precedenti (il ricordo, il valore psicologico degli oggetti, la forza ancestrale della fiaba, …), intrecciandole, migliorandole e riempiendole di ulteriore significato, in una sorta di implementazione e di riconoscimento di senso. Per un lettore, superfluo dirlo, questa è una sensazione bellissima. 
Non voglio raccontarvi cosa accade in questo libro, perché oltre alle caratteristiche stilistiche a cui ho accennato qui, la sua bellezza sta nella perfetta architettura della trama: il solo aspetto che voglio sottolineare, per me importantissimo in ogni espressione letteraria, è la forza della presenza della casa, di cui l’eroina eponima è la personificazione. È come se fosse la casa stessa a raccontare questa storia; e come questo possa accadere, lo scoprirete inoltrandovi in questo romanzo. Abbandonate i vostri punti di riferimento razionali e lasciate che queste pagine vi trasportino in un altro spazio, in altri tempi: sarà una bellissima esperienza di lettura.

6 novembre 2018

Mrs Osmond (Isabel) di John Banville

Qualche settimana fa è uscito in Italia Isabel di John Banville (Guanda) e una manciata di giorni dopo io ho concluso la lettura dell’originale in inglese, Mrs Osmond, nella preziosa edizione Viking (Penguin Books). Con questo libro, il celebre e acclamato scrittore irlandese ha tentato una “missione impossibile”: raccogliere il filo lasciato cadere da Henry James alla fine di Ritratto di signora e immaginare il seguito delle vicende della sua protagonista – Isabel Osmond, appunto. 
Mrs Osmond si apre con un’epigrafe bellissima, tratta dal romanzo jamesiano, «Deep in her soul – deeper than any appetite for renunciation – was the sense that life would be her business for a long time to come», una folgorazione che ci lascia già presumere quello che sarà il tema centrale del libro: Isabel e la sua relazione, al di là di tutto e di tutti, con la Vita. 
Misurarsi con la scrittura di Henry James è una sfida pericolosa e onestamente difficile da vincere: ci si aspetta sempre la “sua” pienezza, la “sua” perfezione, la “sua” capacità di superare i confini della psiche e di inoltrarsi, come una barca in mezzo all’oceano, nell’esplorazione del Sé. Non credo che Banville, o chiunque altro, potesse riuscirci: ma se non si conosce bene Ritratto di signora – sacro caposaldo della letteratura – e dunque non si è tentati dal tracciare un paragone, anche Mrs Osmond risulta davvero un bel libro. 
È la storia di un viaggio molteplice, che Isabel intraprende dapprima da Roma (dove sorge la sua residenza coniugale, Palazzo Roccanera) in Inghilterra per il funerale del cugino, Ralph Touchett, poi di ritorno sul continente, a Parigi, a Firenze (a Bellosguardo, con il suo panorama di «picturesque quilt of olive groves and vineyards, […] a heady fragrance of roses and cypress trees») e di nuovo a Roma. Non è un caso che il romanzo inizi su un treno, con la suggestiva frase: «She felt, did Mrs Osmond, the awful surge and rhtythm of the train’s wheels, beating on and on within her», come se la protagonista e il viaggio fossero una cosa sola. 
Questa è anche la storia di un viaggio interiore e della battaglia che Isabel compie contro sé stessa e i suoi pregiudizi, contro le scelte, le illusioni e i valori del passato: una lotta attraverso la quale lei si libera, finalmente, e che Banville sembra mettere in scena quasi per un atto d’amore verso di lei; per risolvere la tragedia dell’incompiuto rappresentata dal lucidissimo James e dare a questa giovane donna un nuovo orizzonte, una nuova strada da percorrere, nella consapevolezza del proprio valore personale e della necessità di svincolarsi da un marito che l’ha sempre ingannata: «the realisation of his narrowness of vision, of thought, above all of emotion, was the thing that most sorely disappointed and pained her». Alla fine, Banville permette a Isabel di riconquistare la propria vita, perché – ed è questo uno dei più bei passi del libro – «each life is given once, […] and the individual actor on whom the vivifying gift is bestowed must play his hour upon the stage with the unflagging conviction and in the full realization that there will be only one opening night».

3 novembre 2018

Centinaia di inverni. La nuova biografia targata Jo March

Un anno fa, nel corso di un lungo viaggio in treno, ho letto un manoscritto. Cullata dal clangore regolare delle ruote sui binari e da una luce grigio-perla che occupava l'intera cornice del finestrino in corsa, ho scoperto una storia intensa e ricca, ben preparata ad affrontare con ardore e grande dignità il bicentenario della nascita di Emily Brontë, che si sarebbe celebrato qualche mese più tardi, nel 2018. 
Quel manoscritto oggi è realtà: è diventato un libro. Ed è il secondo volume di una collana per me preziosa, la "Christopher Columbus" della casa editrice Jo March, inaugurata da quello che fra i libri che ho scritto mi emoziona ancora come nel primo giorno di pubblicazione, Sui passi di Elizabeth Gaskell. La collana "Christopher Columbus", che oggi sono onorata e felicissima di dirigere, offre ai lettori italiani una direzione particolare per inoltrarsi nelle biografie dei grandi scrittori del passato: una direzione che è anche e non solo un "viaggio sentimentale", ma principalmente è il frutto di attente ricerche e di infinite, incontenibili letture.
Ebbene, il secondo volume di questa collana è Centinaia di inverni. La vita e le morti di Emily Brontë, opera prima di Sara Mazzini, un esempio di biografia romanzata di altissima qualità. Le pagine ci invitano a entrare nella vita dell'autrice di Cime tempestose senza risparmiarci gli angoli bui della sua sorte e la tentazione di passioni troppo umane: di Emily impariamo a conoscere i terrori e le gioie, la coscienza quasi fisica di se stessa, delle sorelle e del fratello, e la relazione osmotica con il luogo che le appartiene, e a cui lei appartiene - la brughiera dello Yorkshire, strenuamente inondata dal silenzio stringente della neve.
La scrittura di questa biografia è ben controllata e la lingua mai banale, benché limpida; il fraseggio è diretto ed espressivo in misura a tratti travolgente, ed è efficace l’evocazione dei suoni e dello sfondo visivo dell’ambiente-personaggio che è la brughiera intorno al Rettorato di Haworth. Si tratta di una storia che si legge con facilità, sempre in attesa del paragrafo seguente, sebbene le vicende narrate siano note, appartenendo alla storia e alla storia della letteratura. L’andamento, in alcuni capitoli, è addirittura commovente e di grande forza emotiva si rivela  il finale, con la presa di coscienza definitiva del Sé del personaggio. L'abbagliante nuova identità di Emily, che è protagonista e voce narrante, ora tragicamente consapevole della propria fine, genera nel lettore il senso enigmatico e conturbante del germe della morte nella vita, e d’altra parte della vita che resiste alla morte.
Come per Catherine, come per Heathcliff.

28 ottobre 2018

The Master

Quassù fra i monti abbiamo goduto di un ottobre splendente, con i profili delle vette nitidissimi contro il cielo di cobalto e gli alberi di giorno in giorno più saturi d’oro, come un quadro di Klimt. Da ieri, con il mese agli sgoccioli e persino la fine dell’ora legale, siamo immersi nella pioggia, che durerà a lungo, intensa e persistente: domani le scuole resteranno chiuse. Ne ho approfittato per finire un libro che entra senza indugio nella mia lista dei preferiti, perché l’ho amato tantissimo; è riuscito (e non è talento di tutti i libri) a distaccarmi completamente dalla quotidianità e a trascinarmi nella realtà parallela – talvolta la più autentica – della pura letteratura. 
Questo libro è The Master, pubblicato nel 2004 dallo scrittore irlandese Colm Tóibín e tradotto in italiano da M. Bartocci per Bompiani. Il “maestro” è, parafrasando il titolo di uno dei suoi stessi racconti (The Lesson of the Master), Henry James, che per una volta è la creatura, il personaggio, il destinatario e non l’inspiratore dell’alito di vita della scrittura. Tóibín ci racconta un James straordinario, umanissimo, che svela (ma solo a sé stesso) la fatica della socialità e il gusto della solitudine: un uomo con la gola chiusa dai ricordi e dai desideri mai compiuti, dagli amori impossibili e dal rapporto osmotico con la narrazione e con le parole. In undici capitoli accompagniamo James dal gennaio 1895, l’anno del suo fallimento teatrale, all’ottobre 1899, fra le pareti confortanti della casa tanto adorata di Rye, nel Sussex («Amava i rituali del mattino, i libri familiari, le ore trascorse in solitudine e messe bene a frutto, il pomeriggio che scivolava via in bellezza»). 
La linea del tempo, tuttavia, s’intreccia e si srotola, con lunghe incursioni nella giovinezza di Henry e nella storia della sua famiglia, per poi tornare al presente della narrazione, sottolineando così la sua nostalgia e il senso pregnante che la sua scrittura è stata il risultato inesorabile delle sue esperienze e dei suoi incontri. Procedendo lungo le pagine, incontriamo una alla volta le figure che hanno lasciato le impronte più profonde sulla strada del romanziere: i fratelli e la sorella Alice, la cugina Minnie Temple (il modello per Milly in Le ali della colomba), gli artisti della colonia di espatriati americani a Roma (con lo scultore Henrik Andersen che pare la personificazione in vita di Roderick Hudson), i protagonisti dell’aneddoto che ispirò Il Carteggio Aspern, e le tante donne che, sfumatura dopo sfumatura, si sono addensate in Isabel Archer. Tra tutti loro, due nomi, due immagini, due vite più piene delle altre: Lily Norton e Constance Fenimore Woolson. 
Lamb House, l'ultima casa di Henry James.
Foto: IpsaLegit2007
Lily è una figura fugace, ma vivida e ricchissima, che mi ha emozionata perché fu la figlia di Charles Eliot Norton, grande amico di James e soprattutto di Elizabeth Gaskell, della quale la giovane portava il nome. Constance, invece, è il ricettacolo del non-detto e dell’incompiuto: affermata scrittrice a sua volta, strinse con James un’amicizia fuori dal comune, che all’epoca del loro soggiorno condiviso a Bellosguardo, nei pressi di Firenze, destò i commenti a mezza voce dei loro conoscenti. Donna indipendente, appassionata, Constance mise fine alla propria vita a Venezia – la tanto celebrata Venezia di James – gettandosi dal balcone della sua casa vicino al ponte dell’Accademia. Per qualcuno il suicidio fu la conseguenza dell’abbandono dell’amico, che non volle raggiungere Constance nel buio inverno della città sull’acqua. 
Per gli innamorati di Henry James come me, The Master è un libro importante, che in un certo senso annulla la distanza “reverenziale” che possiamo sentire nei confronti di questo scrittore perfetto: ce lo consegna in tutta la sua comune fragilità, come un amico di cui prenderci cura e da osservare in silenzio dalla stanza accanto, mentre lui se ne sta vicino alla finestra, «come per trovare nel giardino la parola o la frase che stava cercando, fra i cespugli e i rampicanti o la rigogliosa vegetazione di fine estate».

4 ottobre 2018

The Victorian and the Romantic

Parecchio tempo fa, girovagando su Twitter, sono venuta a conoscenza di un libro in preparazione: un romanzo della giovane ricercatrice Nell Stevens dal titolo Mrs Gaskell and Me. L’ho aspettato per mesi, e finalmente un paio di settimane fa il libro è arrivato nella cassetta della posta: ho scelto, semplicemente per la bellezza della copertina e per la rilegatura, l’edizione americana, che porta il titolo The Victorian and the Romantic, e ho iniziato immediatamente la lettura, lasciando persino da parte un altro paio di libri che tenevo sul comodino. 
The Victorian and the Romantic è una storia che viaggia su due binari, destinati tuttavia a incrociarsi: il resoconto di un periodo piuttosto rilevante della vita dell’autrice e il racconto della vacanza romana di Elizabeth Gaskell, e della tempesta di sentimenti che quel viaggio (molto presumibilmente) suscitò dentro di lei. A Roma Gaskell incontrò Charles Eliot Norton, il giovane critico d’arte e traduttore americano con il quale scambiò in seguito lettere piene di affetto, di profonde riflessioni e di luminosi ricordi, e leggendo quegli stralci di epistolario non è poi così improbabile pensare che la scrittrice nutrisse per lui qualcosa di più intenso di una semplice amicizia. 
I capitoli “autobiografici”, che narrano la vicenda personale e la storia d’amore di Nell, sono freschi, lievi e piuttosto divertenti: il ritratto dell’esperienza del dottorato di ricerca è perfettamente corrispondente al vero!, come quando leggiamo di come si svolgono le riunioni tra dottorandi (durante le quali spuntano immancabilmente le considerazioni di quei colleghi che pensano che il proprio percorso di ricerca sia l’unico valido, le cui premesse dovrebbero essere applicate agli studi di tutti gli altri) o quando Nell sostiene (e questa sensazione l’abbiamo provata tutti): “I feel as though I know even less than when I started” (p. 46). 
Di tutt’altro tono e intensità i capitoli dedicati a Elizabeth Gaskell, con la quale Nell si rammarica (esattamente come me) di non poter avere uno scambio epistolare: «I felt – still feel – a pang, something like lovesickness, when I think that Mrs Gaskell and I can’t write to each other. We would write such good letters, I think. We would have so much to say» (p. 48). In queste pagine il linguaggio si fa più dolce, a tratti quasi antico, come ad evocare la scrittura gaskelliana: di grande effetto l’episodio della processione di Carnevale, che Gaskell riporta in Delitto di una notte buia e di cui abbiamo una testimonianza anche in una lettera della figlia Meta (cfr. il mio Sui passi di Elizabeth Gaskell).
Il ritratto che Nell ci offre della sua “amica” Elizabeth è traboccante d’affetto; e io, che per alcune opere ho “prestato” ad Elizabeth la voce italiana e che sento con lei un legame fortissimo che trascende i confini del tempo, sono stata felice di percepire i miei stessi pensieri stampati sulla carta: «I had never encountered a writer who could fill a page so entirely with herself. Mrs Gaskell is […] brimming with love for the people around her. […] It oozes from those letters, that love: it reached me as soon as I began reading them» (p. 48). Sì, è proprio questa la sensazione che le lettere di Elizabeth Gaskell hanno suscitato in me: la percezione di una vitalità travolgente e di uno sconfinato amore per gli amici. Tra i tanti celebri incontri di Elizabeth Gaskell, gli espatriati anglo-americani di Roma godono di un’attenzione particolare in questo libro e uno dei capitoli finali è dedicato proprio a loro. La conclusione del romanzo è pregna di commozione: uno scrigno di delicatezza, di coscienza del tempo che passa, e infine della consolazione dell’immortalità dell’arte e dell’amicizia.

29 agosto 2018

Incontro in Egitto

A ogni nuova lettura, Penelope Lively mi piace di più (ho consigliato due suoi libri anche ai miei studenti, per l’estate). In questo blog ho scritto, con grande entusiasmo, di L’estate in cui tutto cambiò, Amori imprevisti di un rispettabile biografo, È iniziata così e Un posto perfetto, e oggi tocca a Incontro in Egitto (sempre edizione Guanda, trad. it. di Gaspare Bona). 
Come spesso accade nei libri di Lively, Incontro in Egitto (vincitore del Booker Prize nel 1987) si dedica alla rappresentazione del valore del Tempo nella vita dell’essere umano. Il Tempo, entità fluida e inafferrabile, intonata dal caos, orchestrata dal destino, che ci invita a riflessioni profondissime e spesso sconcertanti sulla nostra esistenza e sulla differenza tra realtà e non-realtà, su un oggi che è, misteriosamente, un livello di percezione intercambiabile con il passato e con altri infiniti piani di verità. 
Il libro racconta, attraverso una molteplicità di io narranti che ci permette subito di cogliere la necessità di una realtà non assoluta, la storia di Claudia, un’anziana donna in punto di morte che torna indietro nel tempo e ci presenta la sua vita. Claudia, ex reporter di guerra, ha una personalità forte, voluminosa, a volte eccessiva, scevra di compromessi e di ipocrisie. È una donna che si è occupata di storiografia e che ha dovuto meditare a lungo sulla natura del Tempo, sul significato e sulla funzione della figura dello storico e sul suo rapporto con il Vero, sulla potenza del linguaggio e infine, e dunque, su se stessa: «Non c’è cronologia nella mia testa. Sono fatta di una miriade di Claudie che vorticano e si mescolano e si dividono come scintille di sole sull’acqua»; «Quando voi e io parliamo di storia, ci occupiamo forse di ciò che è realmente avvenuto? Del caos cosmico in ogni luogo e in ogni tempo? No, parliamo di come tutto ciò viene ordinato nei libri […]. La storia si dipana; le circostanze, per naturale inclinazione, preferiscono rimanere aggrovigliate»; «il tempo e l’universo sono sparpagliati nelle nostre menti. Siamo storie del mondo assopite». 
Penelope Lively (The Guardian)
Tra i tanti episodi della vita di Claudia, quello centrale è il suo “incontro in Egitto” durante la seconda guerra, che la costringe a mettersi a confronto con la barbarie della battaglia, la decadente ideologia del colonialismo, la bellezza sfiancante del deserto e la potenza trascinante dei sentimenti. Le parole che Lively, nativa di Il Cairo, usa per descrivere l’Egitto – ultimo balenio dell’impero britannico – sono seduttive, colme di struggimento: «Nel ricordo non c’è che la spalla bassa e lunga della collina fulva che domina la Valle dei Re, dietro alla quale s’inabissa il sole fra pennellate d’oro, di rosa e di turchese. La mite sera egiziana risuona del tintinnio del ghiaccio nei bicchieri, dello sciabattare dei camerieri sulla terrazza di pietra dell’albergo, del brusio di voci, delle risate: suoni di cento altre serate». Questo libro è davvero bellissimo: uno di quei romanzi traboccanti di umanità, che ti rendono felice e orgogliosa di essere una lettrice.

14 agosto 2018

Storie d'Irlanda - Lissadell House

Sono tornata da poco da un magnifico viaggio in Irlanda, dove ho visitato le contee che non avevo attraversato nel corso del mio primo tour, tredici anni fa: il Nord, Donegal, Sligo e Mayo. L’Irlanda, si sa, è un paese che ovunque trasuda letteratura, leggende e poesia, e ogni villaggio, ogni brughiera, ogni staccionata e ogni curva della strada evocano narrazioni dalle quali è difficile non lasciarsi incantare. Un racconto, in particolare, mi ha affascinato nel corso di questo viaggio. È il racconto di una dimora e di due sorelle indomite, la cui vita è stata densa di fatti come un romanzo, e anzi, molto di più, perché si è innestata dentro la Storia. 
Foto: IpsaLegit 2018
La casa si chiama Lissadell House, nella contea di Sligo. L’ho visitata sulla scia dell’istinto – non era citata nella mia Lonely Planet – durante una mattina di pioggia che poi si è aperta in un mezzogiorno assolato. La visita è stata guidata da una bravissima accompagnatrice in abiti e acconciatura del primo Novecento, che ci ha condotti in un lungo giro da una sala all’altra (perfettamente conservate e riccamente adornate grazie alla famiglia che ha acquistato la casa e l’ha salvata dalla rovina), lasciandoci ammirare gli arredi, le fotografie e i dipinti appesi alle pareti. E mentre contemplavamo le stanze, la giovane guida ci raccontava, in prima persona (“My name is Eva Gore-Booth”), le vicende delle sorelle Gore-Booth, Eva e Constance, scrittrici, artiste, portavoce del movimento per la rivendicazione dei diritti delle donne e amiche di W.B. Yeats, che a Lissadell trascorse numerosi e amatissimi soggiorni. 
Eva è la meno nota delle due sorelle Gore-Booth. Nata a Lissadell nel 1870, era una ragazza gentile, pacifica, dotata di una forte spiritualità che esprimeva nel disegno e nella poesia. Fu una suffragista, ma decise di opporsi alla violenza come mezzo di lotta politica. Durante un soggiorno in Italia, a Bordighera, incontrò Esther Roper, con la quale trascorse il resto della sua vita. A Lissadell ho trovato un libricino che contiene i disegni e le poesie di Eva, tra le quali alcune sono dedicate proprio a Esther e molte all’abbraccio della natura che circonda la casa. Ho trovato bella e suggestiva The Hidden Beauty e in particolare la sua prima strofa: 

I have sought the Hidden Beauty in all things, 
In love, and courage, and a high heart, and a hero’s grave, 
In the hope of a dreaming soul, and a seagull’s wings, 
In twilight over the sea, and a broken Atlantic wave, 
I have sought the Hidden Beauty in all things.
(Eva Gore-Booth. Her Poetry & Sketches, Lissadell Press 2017, p. 58). 

Eva e Constance
Della sorella di Eva, Constance, le vicende sono più conosciute, perché con il titolo e il cognome presi dal marito, Contessa Markievicz, la donna fu una delle protagoniste dell’evento che diede il via alla rivoluzione per l’indipendenza irlandese: la sollevazione di Pasqua del 1916. Constance fu una giovane brillante, energica, appassionata e studentessa di belle arti alla Slade School di Londra. Il suo primo coinvolgimento attivo nella politica coincise con l’affermazione del movimento delle Suffragette, ma il suo nome è rimasto scritto nella Storia soprattutto per il suo indefesso lavoro e la sua generosità nei confronti dei poveri di Dublino e per la parte attiva svolta durante l’insurrezione di Pasqua. In quei giorni d’aprile del 1916 Constance era uno degli ufficiali del Irish Citizen Army: si barricò nel parco di St. Stephen’s Green insieme ai ribelli che lottavano contro l’esercito inglese, fu catturata e condannata a morte come gli altri capi della rivolta, ma in quanto donna la sua sentenza fu commutata in ergastolo. Le sue testimonianze (anche in versi) della carcerazione sono documenti importanti e illuminanti, ma di particolare bellezza restano le lettere che dalla prigione Constance scambiò con la sorella Eva. Un anno dopo la condanna, Constance fu rilasciata, ma il suo impegno politico non si concluse: fu la prima donna a essere eletta nel Parlamento britannico (ma rifiutò il seggio per protesta) e la prima a servire come deputata nel neonato Parlamento irlandese. Quando morì, nel 1927, al corteo per il suo funerale, che si snodò tra le strade di Dublino, parteciparono trecentomila persone. Nell’ottobre di quell’anno, W.B. Yeats scrisse In Memory of Eva Gore-Booth and Con Markievicz, in ricordo delle due sorelle scomparse (Eva era morta l’anno precedente), che celebra così: 
Foto: IpsaLegit 2018

The light of evening, Lissadell 
Great windows open to the south, 
Two girls in silk kimonos, both 
Beautiful, one a gazelle. 
[...]
Dear shadows, now you know it all, 
All the folly of a fight 
With a common wrong or right. 
The innocent and the beautiful 
Have no enemy but time.


21 luglio 2018

L'assassinio di Florence Nightingale Shore

Come da mia personale tradizione estiva (e anche natalizia) ho appena finito di leggere un giallo all’inglese, una pubblicazione recente che fa parte di un progetto editoriale piuttosto ambizioso. È L’assassinio di Florence Nightingale Shore di Jessica Fellowes (nipote di Julian Fellowes, l’autore di Downton Abbey), nell’edizione italiana Neri Pozza. Il libro, con una copertina eccezionale, è uscito lo scorso anno ed è il primo capitolo della saga The Mitford Murders, intitolata alle celebri sorelle Mitford, che con i loro vari talenti e le loro personalità (in seguito molto controverse), contribuirono allo scintillare della società londinese degli anni Venti. 
La vera protagonista di questo libro, però, non è Nancy Mitford (la più presente, tra tutte le sorelle, nella storia), ma un’altra giovane piena di intraprendenza, Louise, che dai bassifondi di Londra combatte per un futuro migliore e più virtuoso, affidandosi solo alle proprie forze, al proprio ingegno e alla propria morale: un bel personaggio, che comparirà anche nel prossimo romanzo della saga. L’uscita del secondo “omicidio Mitford” è prevista per il prossimo autunno: il titolo sarà Bright Young Dead, per parafrasare la diffusa definizione “bright young things”, appellativo  dei giovani della Londra di quegli anni – giovani bohémiens, festaioli, vestiti in modo eccentrico e spesso dediti all’alcol e alle droghe – che furono descritti nei romanzi della stessa Nancy Mitford (nota soprattutto per L’amore in un clima freddo), di Evelyn Waugh e di Anthony Powell. 
L’assassinio dell’infermiera Florence Nightingale Shore fu un evento reale, e un delitto irrisolto. Jessica Fellowes lo prende come spunto per iniziare la propria storia e ci costruisce intorno un mondo colorato e divertente, fatto di aristocratici annoiati e giovani donne in cerca di una strada da seguire, poliziotti coraggiosi e anime perdute a causa delle tragedie della Grande Guerra. Il libro è insomma una lettura leggera e piacevole, difficile da abbandonare in questi pomeriggi di vacanza, e che sicuramente invita ad accaparrarsi anche il prossimo capitolo, non appena sarà pubblicato.

18 luglio 2018

Virginia Woolf, mia zia

Leggere le biografie mi richiede sempre molto tempo. Un po’ perché sono corpose, d’altro canto perché procedo volutamente con lentezza, con la matita in mano, per non perdere i dettagli, non confondere i nomi dei personaggi che entrano, escono e ricompaiono in scena, per immaginarmi una mappa geografica dei luoghi, delle case, dei viaggi. Una biografia è il racconto di una vita, non la si può percorrere con distrazione. 
Ho dovuto aspettare l’inizio delle vacanze per portare a termine Virginia Woolf, mia zia di Quentin Bell (La Tartaruga edizioni, trad. it. di Marco Papi), iniziato alla fine dell’inverno e finora mai concluso per mancanza di concentrazione. È stata una lettura appassionante e vigorosa, compiuta con la consapevolezza sempre accesa del fatto che l’autore è un parente stretto del soggetto narrato, che con lei ha vissuto, parlato, riso, e che si pone nei suoi confronti con l’affetto del nipote, il rispetto del lettore, ma anche con l’obiettività del biografo. 
Il volume si divide in due parti e lo spartiacque è segnato dal 1912, anno del fidanzamento tra Virginia e Leonard Woolf. È l’evento che separa l’infanzia dall’età adulta, ma anche la fase di “preparazione” alla scrittura da quella della pubblicazione (The Voyage Out uscì nel 1915). In entrambe le sezioni Quentin Bell (il figlio della sorella di Virginia, Vanessa), traccia ritratti profondissimi della zia, esaminandone senza indugi la personalità complessa e la grande fame di conoscenza, descrivendone i tormenti, le sofferenze, la malattia, ma anche i momenti di allegria e di quiete. 
I capitoli familiari sono intensi e struggenti, per l’evocazione della figura della madre della scrittrice, Julia (sorella della fotografa Julia Margaret Cameron), per il racconto dell’istruzione impartita in casa, delle rivalità tra fratelli, delle visite dei grandi nomi a Leslie Stephens (tra cui Henry James), dei viaggi in Cornovaglia – per sempre il paradiso di Virginia. Talland House, a St. Ives, la casa di villeggiatura della famiglia, è così descritta: «Accanto al cancello c’era una specie di siepe di escallonia e al di là del giardino, tutto un saliscendi sul pendio ondulato, con un’infinità di praticelli, di cespugli, di nascondigli privati; […] e oltre il campo di cricket, il mare. […] La regata annuale, la sabbia, le pozze d’acqua tra le rocce con gli anemoni di mare che fiorivano sotto i pesci guizzanti, la grande baia con le vele e le navi a vapore […]. E poi c’erano la panna della Cornovaglia, il venditore di focacce calde […] – e tutta la pienezza, la felicità di quella vita». 
Con la morte della madre (che è la signora Ramsay di To the Lighthouse), è come se una luce si spegnesse nella vita di Virginia. Il padre è un uomo difficile, la pace della casa è violata dalle molestie del fratellastro, Vanessa sviluppa un senso di autonomia che la allontana dal nucleo familiare, e la maturità si presenta presto a reclamare il suo tributo. La seconda parte del libro, con il racconto delle vicende editoriali, talora strazianti, talora gloriose, dei grandi incontri personali e artistici (Katherine Mansfield, T.S. Eliot, Edward Morgan Forster, Roger Fry, Aldous Huxley, Vita Sackville West e infiniti altri) e dei faticosi incontri con la politica, è infarcita di lettere e di brani di diario, che testimoniano gli eventi epocali di quegli anni, come la prima guerra mondiale, e quelli più intimi, come gli amori di Virginia o l’acquisto di Monk’s House a Rodmell. Il biografo descrive la scrittrice, negli anni Venti, come «lineare, elegante, composta. […] era nel movimento che Virginia rivelava realmente se stessa. […] La sua conversazione era punteggiata di esclamazioni di sorpresa, di domande imprevedibili, di fantasie e di risate, l’allegra risata del bambino che trova il mondo più strano, più assurdo e più bello di quanto chiunque altro possa immaginare. Pareva che il riso in quegli anni fosse il suo elemento naturale». 
Il salotto di Monk's House.
Fonte: Wikimedia Commons
Non è certo questo il ritratto più diffuso di Virginia Woolf. Ancora oggi è più frequente rappresentarla come una donna malata e una scrittrice difficile, e della sua vita si ricorda soprattutto la fine, e la scelta del suicidio (che segna l’ultima pagina di questa biografia), probabilmente determinata dal ripresentarsi della malattia e dall’ora più buia della seconda guerra mondiale, con gli aerei tedeschi sopra la testa e il terrore dell’invasione. Tuttavia, anche e soprattutto dopo questa lunga lettura, a me piace ricordare la Virginia della luce – la luce del faro, della rivendicazione dei diritti delle donne (A Room of One’s Own), dei fiori della signora Dalloway, del funambolismo di Orlando, degli episodi di Night and Day e The Years, delle passeggiate londinesi e dei colori vividi e trascinanti della cucina, dei diari di viaggio, del giardino e degli arredamenti di Monk’s House.

28 giugno 2018

Omicidio a Road Hill House

Negli ultimi tre giorni mi sono dedicata alla lettura di Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale (Einaudi), che aspettavo di leggere da tantissimo tempo, e l’attesa non è stata affatto delusa. L’opera, come suggerisce il titolo (in originale, The Suspicions of Mr Whicher or The Murder at Road Hill House), è il resoconto di un omicidio avvenuto in una dimora di campagna, ma ciò che lo distingue dalla classica narrazione “gialla” di marca inglese è che l’omicidio in questione è avvenuto per davvero.
L’opera di Summerscale (laureata a Oxford con lode e vincitrice di numerosi premi letterari), infatti, non è un romanzo, ma una sorta di libro-inchiesta che ripercorre le annose vicissitudini relative alle indagini sulla morte di un bambino, figlio di una famiglia borghese dell’Inghilterra dell’ovest. Ciò che si rivela particolarmente interessante è che nella sua trattazione degli eventi, il saggio non si limita a descrivere i fatti accaduti, ma offre uno studio ragionato sulla cultura e sulla società dell’epoca in cui essi si sono svolti. 
L’omicidio del piccolo Saville Kent si verificò in una fredda notte d’estate del 1860 e tutto ciò che avvenne a seguito di tale delitto viene studiato nel libro come una manifestazione della stessa natura sociologica dell’età vittoriana. L’autrice esplora la nascita del corpo dei detective della polizia, rappresentato da figure che hanno fatto la storia dell’investigazione, come Charles Field (ammiratissimo da Dickens) e lo stesso Whicher, e ne esamina sia le procedure, sia la reputazione presso l’opinione pubblica (non a caso il sottotitolo scelto da Einaudi per questo saggio è Invenzione e rovina di un detective). A noi lettori viene poi illustrato, in chiave ottocentesca, un fenomeno attualissimo, che sempre ci lascia sconcertati a seguito del compiersi di una tragedia delittuosa: il fenomeno, cioè, del fanatismo, dell’ossessione del pubblico per la vicenda, che spesso sfocia nella morbosa bramosia di rimestare nei dettagli della vita privata altrui e addirittura nel “turismo da delitto”, che induce decine di persone a voler visitare il teatro del fatto. Sono espressioni di febbrile e collettiva avidità di dettagli le cui cause e conseguenze ci spaventano ancora oggi guardando il telegiornale, ma da cui non era esente nemmeno la società vittoriana, che iniziava allora a essere abituata all’eccesso di informazioni in virtù della moltiplicazione delle pubblicazioni giornalistiche. 
È di grande interesse, inoltre, la trattazione dell’ideale domestico dell’epoca, ossia la casa concepita come «santuario inviolabile», luogo impenetrabile della privacy, rifugio dalla velocità del progresso e dalla sempre più concreta minaccia di mescolanza delle classi, e che nonostante tutto non aveva mezzi per difendersi dal rischio della violenza interna, di dinamiche familiari corrotte, di psicologie labili (anche nelle figure più tradizionalmente innocue, come le giovani donne e i bambini) e in definitiva della follia dei suoi abitanti. 
Non mancano infine i riferimenti alla letteratura coeva, che proprio in quegli anni – e di nuovo grazie al boom dell’editoria (libri e riviste letterarie) – si lanciava nel sensazionalismo, per soddisfare la fame di “giallo” dei lettori: Summerscale evoca lo stesso Dickens (con il suo enigmatico, perché incompiuto, Il mistero di Edwin Drood), Henry James (Il giro di vite), Wilkie Collins (La pietra di luna), Mary Elizabeth Braddon (Il segreto di Lady Audley) e vi ricerca, con successo, somiglianze inquietanti con l’omicidio che è al centro della sua ricerca, dimostrando così come l’intera cultura del tempo ne sia stata profondamente influenzata. 

Per un excursus sulla “letteratura del delitto” di ambientazione britannica, vi invito a leggere due post che sono il resoconto di una serata in libreria di qualche tempo fa, intitolata “Omicidi all’inglese”, durante la quale ho proposto una presentazione dell’argomento: 



22 giugno 2018

Letture di una "prof", prima delle vacanze

Cari lettori, in queste ultime settimane sono state tante le idee libresche che mi sono passate per la testa, ma la concentrazione e la tranquillità giuste per scriverle mi sono mancate, purtroppo. Maggio, per chi lavora a scuola, è un mese lungo e fitto di incombenze, e benché ormai le lezioni siano finite da due settimane, le ultime riunioni, gli scrutini e gli Esami di Stato ora in corso non mi hanno lasciato troppo tempo per occuparmi del mio sempre amato blog. Ma quali sono stati, in questi due mesi, i miei pensieri legati ai libri (lasciando perdere i libri di testo in adozione per il prossimo anno…)? Innanzitutto ho stilato delle liste di letture da assegnare alle mie classi per l’estate: a parte per un gruppetto ristretto di studenti, che hanno necessità di ripassare la grammatica inglese, ho voluto che i “compiti delle vacanze” fossero romanzi, saggi o racconti, possibilmente da amare e ricordare. Spero di aver proposto delle opzioni che piacciano e che avvicinino i ragazzi al «paradiso senza fine» (come direbbe Virginia Woolf) dei libri. 
Personalmente in questo periodo ho letto librini “piuma”, superleggeri, che mi facessero compagnia per una mezz’oretta prima di addormentarmi – qualche giallo di poca sostanza e persino una manciata di quei romanzetti che vendono migliaia di copie, generalmente ambientati in una botteguccia di Parigi o cose così. Niente di cui valga la pena scrivere qui, evidentemente! Tra le letture più serie, invece, rientrano The Aspern Papers e la collezione di lettere di Henry James, Letters from the Palazzo Barbaro (edizioni Pushkin, a cura di Rosella Mamoli Zorzi, con una prefazione del biografo dello scrittore, Leon Edel), scritte nel corso dei soggiorni veneziani. In una di queste lettere si fa riferimento all’aneddoto che ispirò a James proprio la composizione del Carteggio Aspern. Continua poi la mia lettura di Virginia Woolf, mia zia di Quentin Bell (La Tartaruga edizioni). Infine, la più recente lettura in corso, iniziata ieri sera, è Omicidio a Road Hill House di Kate Summerscale (Einaudi), che a giudicare dalle prime pagine promette davvero bene! Ah, dimenticavo: ho lavorato alle ultime bozze di una nuova traduzione di Elizabeth Gaskell, che dovrebbe uscire tra poco. Spero di potervi scrivere presto tutti gli aggiornamenti del caso… 
E poi, come spesso accade quando ho voglia di bella scrittura, ma non troppo difficile, sono ritornata a Kate Morton – che, come sa chi frequenta Ipsa Legit, è una delle mie scrittrici preferite: in attesa del suo prossimo romanzo, intitolato The Clockmaker’s Daughter, che uscirà a settembre, ho scelto di rientrare nelle suggestive atmosfere di The Distant Hours e nelle stanze “parlanti” di Milderhust Castle. 
Come recita lo stesso incipit del libro, «It all started with a letter», questa storia comincia a partire da una lettera consegnata con anni di ritardo, che innesca una ricerca a ritroso nel tempo da parte dell’io narrante, alla scoperta dei segreti che hanno coinvolto sua madre e un terzetto di sorelle colpite dalla tragedia della seconda guerra mondiale. Il grande talento descrittivo di Kate Morton, bravissima nell’esplorare i meccanismi della memoria e nel rappresentare ed evocare i luoghi (sarà forse questa la ragione per cui mi piace così tanto?), si esprime in passi come questi: «I can still see the glittering morning sky on my lids: the early summer sun simmering round beneath a clear blue film. It stands out in my memory, I suppose, because by the time I next saw Milderhust, the seasons had swung and the gardens, the woods, the fields, were cloaked in the metallic tones of autumn». «Have you ever wondered what the stretch of time smells like? […] Mould and ammonia, a pinch of lavender and a fair whack of dust, the mass disintegration of very old sheets of paper. And there’s something else, too, something underlying it all, […]. It’s the past. Thoughts and dreams, hopes and hurts, all brewed together, fermenting slowly in the fusty air, unable ever to dissipate completely». «The room settled around their absence; the stones began to whisper. The loose shutter fell off its hinge, but nobody saw its slip». Che modo magnifico di descrivere la vita reale dei luoghi, di come essi riescano a sopravvivere anche oltre coloro che li hanno abitati, e di come sappiano restituire al visitatore di un tempo seguente tutta la potenza delle passioni di chi lo ha preceduto… 
Per concludere questo post, suggerisco un altro paio di miei vecchi scritti su Kate Morton, uno riguardo al mio incontro con lei a Francoforte (https://ipsalegit.blogspot.com/2015/10/meeting-kate-morton-at-frankfurt.html) e l’altro su The Secret Keeper, il suo quarto libro (https://ipsalegit.blogspot.com/2012/11/una-splendida-lettura.html
Insomma, vi auguro una buona estate, lettori!

25 aprile 2018

Elizabeth Gaskell a Roma

Se nell’ultimo post, dedicato a Daisy Miller, ho parlato di Roma attraverso gli occhi di Henry James, in questa giornata di festa voglio tornare nella città eterna per raccontare le esperienze personali e letterarie di un’altra viaggiatrice illustre, Elizabeth Gaskell. L’autrice di Mogli e figlie e Nord e Sud desiderò per tutta la vita vedere l’Italia e lavorò alacremente per potersi permettere il tanto ambito viaggio: finalmente, il 23 febbraio 1857, dopo un tragitto lungo e accidentato, giunse in città insieme alle figlie maggiori, Marianne e Meta, e con loro fu ospite di William Wetmore Story e la moglie per una lunghissima e corroborante vacanza. 
The Angel of Grief è la statua in marmo scolpita da
William Wetmore Story per la tomba della moglie
Emelyn, al Cimitero Acattolico di Roma (anche
William fu poi sepolto sotto le sue ali)
William Wetmore Story era un appassionato d’arte e dopo essersi innamorato di Roma in occasione dei suoi primi soggiorni, aveva deciso di trasferirvisi stabilmente, diventando «il protagonista di spicco di un circolo cosmopolita i cui rituali – tutt’altro che immobili ma anzi in continua trasformazione – egli stesso avrebbe contribuito a codificare perfettamente anche grazie ai felici rapporti con l’ambiente culturale e aristocratico romano» (B. Bini, L’esilio dorato di William Wetmore Story). Nel corso degli anni, William ed Emelyn furono il punto di riferimento a Roma per una miriade di espatriati e viaggiatori anglo-americani: tra loro Thackeray, Robert Browning, il generale Grant e i primi ministri inglesi, Charles Sumner, Leigh Hunt, Henry James (che ne avrebbe scritto la biografia) e la nostra Mrs. Gaskell, che soggiornò nella casa dei coniugi in via Sant’Isidoro.
Di questo luogo Elizabeth avrebbe scritto in una lettera (482): «Via Sant’Isidoro, con la luce ambrata del sole che scendeva dai tetti romani grigio-dorati, i colli Sabini da una parte e il Vaticano dall’altra…». In Delitto di una notte buia leggiamo il solo episodio italiano di tutta la narrativa gaskelliana: un episodio autobiografico (riportato anche in una lettera della figlia Meta risalente al 1910), che ricorda proprio il martedì grasso di quel 1857, quando Elizabeth poté godere dello spettacolo della processione carnevalesca affacciata al balcone degli Story.
Scrive Gaskell: «Così venne marzo; la Quaresima cadeva tardi quell’anno. Grosssi mazzi di violette e di camelie venivano venduti all’angolo di via Condotti e i festaioli non avevano alcuna difficoltà a procurarsi fiori ancor più rari per le belle del Corso. […] Mrs. Forbes aveva preso in affitto un balcone privato, come si addiceva a una rispettabile e danarosa gentildonna inglese. Le ragazze avevano un grosso cesto pieno di mazzolini di fiori da gettare agli amici nella folla di sotto; numerosi moccoletti erano impilati sul tavolo alle loro spalle, perché era l’ultimo giorno di Carnevale e, non appena fosse sceso il crepuscolo, si sarebbero accese le candele, che tutti avrebbero tentato in ogni modo e altrettanto velocemente di spegnere» (Croce 2017, trad. it. di M. Barbuni, p. 213). 
Nel corso della sua vacanza romana, Elizabeth poté incontrare nuovamente e stringere una forte amicizia con Charles Eliot Norton, un giovane critico d’arte americano che soggiornava a Piazza di Spagna e che accompagnò lei e le sue figlie a visitare tutte le meraviglie della città: il Colosseo, Villa Borghese, San Pietro… Elizabeth avrebbe scritto in una lettera (375) di qualche anno dopo: «Fu in quegli incantati giorni romani che la mia vita giunse al suo culmine». 
Il viaggio di Elizabeth a Roma e in Italia è oggetto del capitolo “Incanto italiano” del mio libro Sui passi di Elizabeth Gaskell (Jo March 2016) e a quanto pare sarà anche il tema, romanzato, di un’opera di narrativa che uscirà la prossima estate, a firma della scrittrice e studiosa inglese Nell Stevens: il libro si intitolerà Mrs. Gaskell and Me (negli Stati Uniti, invece, The Victorian and the Romantic) e presumibilmente si occuperà anche del forte e affettuoso legame tra Elizabeth e Charles Eliot Norton – che fu, tra le altre cose, traduttore della Divina Commedia. Un insieme di intrecci davvero suggestivo, che non possiamo fare a meno di attendere con trepidazione!

22 aprile 2018

Daisy Miller

Dopo un inverno lungo e freddo, in questi ultimi giorni anche qui fra i monti ci immergiamo nella primavera, e io ne sto approfittando per leggere en plein air, e soprattutto per ritornare a uno scrittore che è e resterà forse per sempre il mio più amato – lo scrittore che mi ha svelato la bellezza sconfinata del leggere in inglese, e che ha influenzato, in un modo o nell’altro, un’ampia porzione della mia vita (e di questo blog). 
Lo scrittore è Henry James. Il mio primo incontro con la sua penna risale ai primi anni dell’università, quando scoprii, come una specie di illuminazione, Ritratto di signora. Da allora in avanti non feci che cercarlo e inseguirlo, entrando nelle librerie anche solo per scorrere il suo scaffale, anche solo per desiderare di potermi portare a casa la sua opera completa. Alla fine degli studi magistrali, nel momento della scelta della tesi, era a lui che avrei voluto dedicare la mia ricerca: a lui e in particolare al rapporto tra le sue opere e i luoghi di ambientazione. Non potei perseguire questo progetto a causa di particolari dinamiche di dipartimento (un rimpianto che non mi lascerà mai), e il mio percorso di studi si spostò dunque su Elizabeth Gaskell prima e sulle scrittrici del Romanticismo inglese più avanti. Tante cose sono cambiate da quel tempo, le vicende della vita mi hanno portata lontano dall’accademia e in giro per l’Europa, ma il ricordo di Henry James è stato sempre presente, e dovunque mi sia spostata ho sempre ricercato quella sua bellezza, quei suoi luoghi, appunto, che fanno di lui per me una sorta di oracolo della letteratura e del viaggio. 
Il castello di Chillon (Foto: IpsaLegit2016),
sul lago di Ginevra, che Daisy visita insieme a
Winterbourne. A questo luogo "byroniano"
ho dedicato il post Letteratura sul lago
In questi giorni di sole e aria profumata, dicevo, sono ritornata a James. Ho ripreso in mano Il carteggio Aspern, con i suoi struggenti ritratti veneziani, e ieri pomeriggio ho finito di rileggere Daisy Miller nella mia edizione dei romanzi brevi dei “Meridiani” (Volume I; la trad. it. è di F. Mei). Daisy Miller è un racconto lungo del 1878. I protagonisti sono i classici personaggi jamesiani, due americani espatriati in Europa: Winterbourne e la deliziosa Daisy, di cui l’innocenza e l’inconsapevolezza dei costumi del Vecchio Mondo distruggeranno la reputazione, e non solo. La storia prende le mosse dalla Svizzera, a Vevey, e prosegue a Roma, e sono proprio l’austerità e la “vecchiaia” di questi luoghi a rendersi colpevoli della caduta di Daisy, che è una giovane donna troppo all’avanguardia per l’età in cui vive, che sceglie la propria strada a dispetto delle convenzioni e affidandosi unicamente al desiderio di libertà. Le giovani donne jamesiane soffrono quasi tutte di questa “malattia” intellettuale, così meravigliosa eppure così tragica: ed è molto spesso proprio in nome della loro libertà che vanno incontro alla tragedia. 
I Fori Romani, dove si consuma
la caduta di Daisy. (Foto: IpsaLegit2018)
Uno scritto didattico e di denuncia insieme, Daisy Miller è un testo, come di consueto per l’autore, stilisticamente perfetto, che nelle rappresentazioni dei luoghi – cruciali per le vicissitudini dei protagonisti – trova istanti di una bellezza purissima: «Pochi giorni dopo […] [Winterbourne] incontrò Daisy in quella bella dimora di fiorente desolazione chiamata il palazzo dei Cesari. La precoce primavera romana riempiva l’aria di profumi e di germogli, e la ruvida superficie del Palatino era ricoperta di verde tenero. Daisy passeggiava in cima ad uno di quei grandi mucchi di rovine, arginati da marmi muschiosi e lastricati di iscrizioni monumentali. Gli parve che Roma non fosse mai stata così bella».

7 marzo 2018

Letture sotto la neve

È difficile leggere speditamente tra le tante (pre)occupazioni legate al lavoro a scuola, ma nelle ultime settimane sono riuscita almeno a collezionare un buon numero di libri che promettono di essere straordinari, e nei quali non vedo l'ora di sprofondare, appena ne avrò la libertà. Dalla biblioteca ho scelto Intrigo italiano (Einaudi) di Carlo Lucarelli - stile inconfondibile: sembra di sentire l'autore raccontare la storia a voce alta -, un giallo che si svolge nella Bologna degli anni cinquanta con protagonista il commissario De Luca, già primo attore di una serie di crime stories ambientate nell'Italia fascista (da non perdere, in particolare, Indagine non autorizzata, edito da Mondadori). Prima di questo libro, mi hanno fatto compagnia le vicende dolci e strazianti del romanzo d'esordio di Joël Dicker (noto per essere l'autore del grandissimo successo editoriale La verità sul caso Harry Quebert), intitolato Gli ultimi giorni dei nostri padri (Bompiani). È questa una storia di guerra, che narra le sorti di un gruppo di giovani partigiani francesi arruolati in Inghilterra per essere preparati a organizzare e portare avanti la Resistenza in patria. Una bella lettura, piuttosto scorrevole, che ha il merito di riscoprire un aspetto del conflitto non molto noto: il fatto cioè che Churchill diede vita a una squadra di servizi segreti (SOE, Special Operations Executive) incaricata di azioni di sabotaggio e intelligence oltre le linee nemiche in territorio francese.
Per passare dall'ebook al cartaceo, le mie più recenti scelte sono state due. Ho comprato in libreria Hotel Sacher. L'ultima festa della vecchia Europa (EDT), un romanzo della scrittrice e giornalista austriaca Monika Czernin, che ci racconta la biografia di Anna Sacher, moglie del proprietario del leggendario albergo viennese, tra metà Ottocento e la prima guerra mondiale.
Il secondo romanzo (in inglese), arrivato oggi con il corriere, è invece l'ultima opera del grande scrittore contemporaneo irlandese John Banville, il cui soggetto è una sorta di realizzazione del sogno di un lettore: si tratta di un sequel di Ritratto di signora di Henry James, che porta il suggestivo titolo di Mrs. Osmond (Penguin Books). Quando ho scoperto la sua esistenza, qualche settimana fa in una libreria svizzera, non potevo quasi crederci... Adesso devo solo trovare un po' di tempo e quiete per godermi tutto lo splendore del ritorno di Isabel.

17 gennaio 2018

Virginia in viaggio

I diari di viaggio sono una tra le forme di scrittura che mi affascinano di più. Quando a questo genere letterario si accompagna il nome di Virginia Woolf, non c’è altro da fare se non lasciarsi incantare. 
La lettura di quest’ultima settimana è l’edizione Mattioli (come sono belle!) Diari di viaggio in Italia e in Europa, una raccolta di brani che, come scrivono le traduttrici F. Cosi e A. Repossi, Woolf non aveva pensato per la pubblicazione e di conseguenza conservano la loro frammentarietà, spontaneità e la freschezza della “brutta copia”. I viaggi oggetto di questa raccolta di pagine diaristiche toccano la Grecia e la Turchia, l’Italia, l’Olanda, la Germania e l’Austria, la Francia e la sezione per me più commovente, «Qui è rimasto qualcosa di noi», interamente dedicata alla Gran Bretagna. Commovente perché i luoghi di Virginia sono luoghi che ho visto, e i tratti del suo pennello fatto di verbo li rievocano con una forza sorprendente, in un ricordo che non è affatto sbiadito dal tempo, bensì forse ancora più luminoso, grazie al contributo delle parole e della nostra mente, pronta ad afferrarle e a rielaborarle. 
Non a caso, citando i luoghi più rappresentativi della Cornovaglia – St. Michael’s Mount e Lizard Point – la stessa scrittrice osserva: «dato che le caratteristiche del paesaggio non sono cambiate in dieci anni, né in mille, il mutamento dev’essere nel mio punto di vista e non nel profilo del territorio». Nella trattazione del Norfolk il linguaggio di Virginia si fa quanto mai visivo: «vedo un muro, colorato come un’albicocca al sole, con tocchi di rosso. Il profilo e gli angoli del tetto e dell’alto camino sono saturi di puro cielo azzurro […]. È il tipo di azzurro che, per una ragione che riesco a malapena a spiegare, mi fa capire perché si dice che “goccioli” dalle ali di un uccello in volo». Su Rye: «penso a tutti i vaghi profumi e alla frescura di una sera di campagna che si riversano sul nostro corpo» e poi «le nuvole […] diventano lenzuoli stracciati dai bordi logori appesi sul paesaggio, che riempiono tutta l’aria di luci e tenebre differenti». 
Di grande interesse, nell’arco dell’intero libro, è notare come la scrittura di Virginia muti e si evolva. Lei stessa afferma: «mi piacerebbe scrivere non soltanto con l’occhio, ma con la mente; e scoprire la realtà delle cose al di là delle apparenze» – questa “scoperta” si realizza, nella prima parte della raccolta, che risale al primo decennio del Novecento, attraverso descrizioni fluide e dettagliate, dolcissime; e nell’ultima parte, composta negli anni Trenta, in frasi lapidarie, di una manciata di parole, che tuttavia, susseguendosi l’una all’altra e a volte prive persino del verbo, formano una sequenza di immagini abbacinanti di significato e di pienezza. Di Heidelberg, per esempio, si legge: «Grande fioritura di rododendri. Ancora caldo e azzurro. E il fiume come una lamina di vetro che si muove». E ti ritornano davanti agli occhi, immediatamente, il profilo delle rovine del castello, le stradicciole della città, la poesia del Neckar.

13 gennaio 2018

La melodia di Vienna

Complici le giornate di riposo della settimana della feste, ho finito La melodia di Vienna, il romanzo più solenne dello scrittore austriaco Ernst Lothar (1890-1974). Il libro, che ho letto nell’edizione e/o (2017) con traduzione di Marina Bistolfi, è un magnifico esempio di racconto di una saga familiare, che si snoda attraverso i diversi piani della grande casa al Numero 10 di Seilerstätte, a Vienna. I due personaggi principali, Henriette e Hans, sono madre e figlio e rappresentano, ciascuno a proprio modo, lo scarto dai valori fondanti dell’etica austriaca, con l’incapacità quasi patologica di adeguarsi alle regole non dette, alla precisione, alle convenzioni della ricca e irreprensibile borghesia lavoratrice. 
L’arco temporale attraversato da questa storia prende il via in piena età imperiale, nel 1888, quando Vienna è ancora il centro di un mondo di lusso e di splendori, ancorché nascostamente fragile; è l’età di Francesco Giuseppe – il padre della patria – e del sogno di un’Austria multietnica e transnazionale, utopia perfetta degli stati uniti d’Europa. Mentre Henriette soffre, invecchia, partorisce e i suoi figli crescono, l’Austria intraprende l’inesorabile sentiero della sua caduta: la prima guerra mondiale ne è metafora eclatante, e la famiglia degli Alt ne affronta le conseguenze con ostinata incapacità di comprendere, mentre il giovane Hans si allontana sempre di più dal nucleo familiare – in primo luogo la fabbrica di pianoforti – per scoprirsi sempre più incapace di adeguarsi alla vita che lo circonda. 
Gli ultimi capitoli testimoniano l’avvento del nazismo e la scomparsa definitiva dell’ideale mitteleuropeo: l’esperienza di lettura di questo libro è particolarmente bella nel prendere atto di come, insieme al tempo storico, anche la scrittura si modifichi, trasformandosi da lieta e leggera a gradualmente più cupa e meditativa, con straordinari brani di introspezione e di riflessione politica. I suoi temi principali sono quelli della grande scrittura austriaca dell’epoca (penso, in particolare, a Musil e Schnitzler, qui più volte citato): l’inettitudine dell’individuo a cospetto della gigantesca macchina burocratica dell’impero; la costante sofferenza psicologica; l’inarrestabile cupio dissolvi che induce i personaggi (fittizi, nonché storici, come il principe Rodolfo) alla tentazione del suicidio. «Hans faceva parte di coloro che non si univano agli altri. […] lui, “uomo senza qualità”, conosceva la misura della sua inibizione, del suo essere radicato nell’Austria. Aveva scoperto che il suo ardente “patriottismo” non era affatto una questione di orgoglio ferito che non gli permetteva di vivere in un Paese umiliato e sconfitto fino all’annientamento, bensì una questione esistenziale. […] riteneva l’Austria qualcosa di più di un bel Paese: per lui era l’idea della convivenza tra individui di sentimenti diversi, quindi la salvezza del mondo».

6 gennaio 2018

Libri in forma di serie TV

Buon anno nuovo, cari lettori! Il post inaugurale del 2018 è dedicato a un aspetto particolare della narrazione letteraria, che negli ultimi anni, anche grazie all’affermazione e alla diffusione di nuove produzioni e di una nuova sensibilità per il genere, ha sempre più di frequente trovato una reintepretazione nella forma della serie televisiva. In ragione della mia formazione e della mia storia professionale, Ipsa Legit si occupa soprattutto della letteratura di lingua inglese, ed è di una manciata di serie tv in inglese (alcune di queste viste per la prima volta durante le vacanze di Natale) che vorrei scrivere in questo lungo post.
Voglio cominciare con Nord e sud, tratto dall’omonimo romanzo di Elizabeth Gaskell. Negli ultimi anni, uno degli eventi ad aver determinato una crescita esponenziale dell’interesse del pubblico per l’autrice è stata indubbiamente questa miniserie in quattro puntate, trasmessa in Gran Bretagna su BBC nel 2004. Questa produzione televisiva, con la regia di Brian Percival e la sceneggiatura di Sandy Welch, riscosse un successo enorme e fu decretata “Best Drama of the Year” con il 49,4% dei voti degli spettatori. Una reazione molto simile ha suscitato nel nostro paese, quando il canale televisivo LaEffe (allora in chiaro) ne ha trasmesso la versione in italiano. Questo adattamento merita di essere studiato con attenzione, sia nelle sue aderenze che nelle sue differenze rispetto al romanzo, perché rielabora molto bene l’aspetto trasgressivo e combattivo della scrittura gaskelliana. Nel novembre del 2004 un articolo di Hywel Williams uscito sul Guardian («The north’s gone south») sottolineò il fatto che con Gaskell si definì la divulgazione dell’idea della separazione tra il nord e il sud dell’Inghilterra; il trauma di questa differenza è visibilissimo nel volto di Daniela Denby-Ashe (Margaret Hale) quando entra per la prima volta in fabbrica. Le sue parole: «Credo di aver visto l’inferno – è bianco, bianco come la neve», che non sono tratte dal romanzo ma sono opera della sceneggiatrice, dimostrano il valore che un adattamento può rivelare anche quando non segue pedissequamente l’opera originale. Meno appropriata, a mio parere, la scena di poco seguente, quando Richard Armitage (John Thornton) picchia selvaggiamente l’operaio sorpreso a fumare in fabbrica: Gaskell non avrebbe assegnato un simile comportamento al proprio personaggio, che agli occhi dei suoi lettori deve apparire sempre e comunque – nonostante le difficoltà e le origini familiari – un gentiluomo. Un’altra interessante aggiunta della miniserie rispetto al romanzo è data dalla sequenza ambientata alla Great Exhibition (episodio 3), perché fornisce un’importantissima iconografia del Vittorianesimo; per la stessa ragione sono cruciali le scene che comprendono treni e stazioni, perché le innovazioni portate in Inghilterra dalla ferrovia sono un motivo narrativo fondamentale nella scrittura di Elizabeth Gaskell (si vedano per esempio Cranford o Cousin Phillis). Ma la sequenza più controversa in termini di differenze con il romanzo è senza dubbio quella finale: l’improbabilissimo bacio tra Thornton e Margaret alla stazione ha destato molte critiche da parte degli addetti ai lavori (è stata definita «un disastro» e «un finale perfetto per una soap opera»); di contro, ha raccolto il 52,2% dei voti dei telespettatori come “Favourite Moment” di tutta la stagione televisiva BBC di quell’anno. Innescando così la formazione di un mito. 
La seconda serie che vorrei descrivere (almeno nelle mie reazioni) è Anne, tratta dal romanzo Anna dai capelli rossi di Lucy Maud Montgomery e disponibile su Netflix. La prima stagione – l’unica finora, ma una seconda è in preparazione – è composta da sette episodi e comincia nel momento in cui Anne arriva a Green Gables, casa dei Cuthbert, per chiudersi in un momento piuttosto critico della loro vita in comune. L’ultimo episodio termina infatti con un cliffhanger che ci ha lasciati ancora più curiosi di vedere il seguito. Le mie impressioni sui personaggi sono molto positive per quanto riguarda Matthew e Marilla, che ho trovato davvero vicini ai loro originali letterari; diversa da come me lo aspettavo, ma interpretata benissimo anche la figura di Gilbert Blythe. Il giudizio sulla protagonista, a cui ha dato il volto la giovanissima attrice irlandese Amybeth McNulty (nata nel 2001), è stato oscillante dal principio alla fine: ossuta e plain al punto giusto e con un colore di capelli perfetto per la parte, Amybeth ha saputo dare vita molto bene ai facili entusiasmi sognanti di Anne, ma sono state forse un po’ troppo accentuate le sue crisi emotive, che talvolta mi sono sembrate ripetitive. D’altro canto, l’enfasi che la serie ha voluto imprimere al tremendo passato di Anne (sconosciuto al lettore nei suoi dettagli) giustifica senza possibilità di replica anche la personalità così turbata e le reazioni iperboliche della protagonista, costantemente minacciata dal terrore dell’abbandono. Una nota di merito speciale va alla sigla iniziale e all’ambientazione: la serie è stata girata in gran parte sull’Isola del Principe Edoardo (dove Montgomery visse e in cui si svolge la saga di Anne), che riemerge sullo schermo in tutto il commovente fascino delle sue campagne distese al sole, lo scintillio del mare, la dolcezza dei fiori di melo, la fragranza delle spighe scricchiolanti mosse dal vento. 
Altrettanta bellezza mi aspettavo nella miniserie trasmessa in Gran Bretagna il 26, 27 e 28 dicembre scorso, Little Women, tratta dal romanzo di Louisa May Alcott. Al contrario, benché l’ambientazione fosse molto bella, con l’attenzione per la luce che ormai abbiamo imparato a riconoscere come tipica delle recenti produzioni BBC, la reazione che ne ho avuto è stata purtroppo di una grande delusione. Forse è dipesa da un cast che ho trovato poco adeguato (a eccezione dei magnifici Angela Lansbury e Michael Gambon), forse da una colonna sonora insufficiente, o forse dal fatto che la narrazione si è trascinata avanti pedissequa, priva di guizzi di luce e di sobbalzi emotivi originali. È pur vero che una reinterpretazione per lo schermo dovrebbe innanzitutto rimanere fedele al testo; ma se non presenta nemmeno una scintilla di innovazione, o l’esito di un ragionamento compiuto sul testo stesso in chiave contemporanea o comunque individuale, secondo me non ha ragione di esistere. Il libro sarà sempre il modo migliore di fruire di una storia: se il film o la serie tv che ne vengono tratti non offrono un contributo rafforzativo al racconto (attraverso un’immagine, l’espressione di un viso, i suoni o altro), è meglio continuare ad affidarci unicamente alle pagine della letteratura. 
Sempre nel corso di queste vacanze ho potuto invece, finalmente, godere di un vero capolavoro del genere, Howards End, tratto dall’omonimo romanzo di E. M. Forster. Del libro ho parlato diffusamente in questo post e devo dire che la serie, in quattro episodi (andati in onda su BBC a novembre 2017), ha saputo scavare dentro questa importantissima opera letteraria e riportarne alla luce ogni singolo aspetto, fino ai non detti del suo sottotesto, sin dalle prime scene – addirittura a partire dalla sigla di testa. I due attori protagonisti, Hayley Atwell e Matthew Macfayden, hanno entrambi un “passato austeniano”: lei, nel ruolo di Mary Crawford, è stata la sola nota felice del malriuscito sceneggiato Mansfield Park; lui, l’ottimo Mr. Darcy di Pride & Prejudice di Joe Wright. In Howards End offrono entrambi un’interpretazione straordinaria, che in ogni singolo gesto e ogni singola parola (la voce di Macfayden è ormai leggendaria…) riprende i significati del libro, restituendo tuttavia un’anima innovativa rispetto allo stesso e al bellissimo film di James Ivory del 1992. Una trasposizione di cui non si poteva fare a meno e che merita di essere rivista, anche per poter godere di nuovo della pura bellezza delle case e degli arredamenti, dei prati della campagna, dei treni a vapore e delle panchine affacciate sui profili di Westminster, dall’altra parte del fiume.