27 febbraio 2017

L'estate prima della guerra

L’estate prima della guerra di Helen Simonson (edizione italiana Neri Pozza, con traduzione di Chiara Brovelli) è un libro che fa molta buona compagnia. È una di quelle belle storie ricche, piene di personaggi interessanti e di tante vicende che si annodano l’una all’altra con armonia; soprattutto, nonostante tanto movimento e tanti intrecci, non sente il bisogno di un sensazionalismo scontato e vuoto che purtroppo caratterizza tanta parte delle pubblicazioni contemporanee. L’ambientazione è (per me) tra le più suggestive possibili: l’Inghilterra meridionale inondata dal sole dell’estate del 1914 – gli ultimi rintocchi dell’epoca bella, prima del baratro. Entrano in scena numerosi personaggi giovani e vitali: Beatrice Nash, l’aspirante scrittrice lasciata sola al mondo dalla morte del padre, che lotta per la sua indipendenza e arriva a Rye, nel Sussex, per occupare un posto di insegnante di latino; Hugh Grange, medico chirurgo; suo cugino Daniel Bookman, poeta troppo sensibile e pieno d’amore per la vita; l’angelica Celeste, profuga belga; e il ragazzo del popolo, Snout, che non fa che rileggere l’Eneide. Poi ci sono i più anziani, come la passionale zia Agatha, l’altera Lady Emily, la rancorosa moglie del sindaco e lo scrittore di successo che è evidentemente, ma non completamente, ispirato a Henry James: tutti impegnati in una girandola di festicciole, riunioni e comitati la cui funzione è far sembrare che la guerra imminente non sarà altro che un’occasione per veder trionfare la gloriosa Britannia. Una bella storia, fatta di sentimenti forti che non si corrompono nel sentimentalismo e, in particolare alla fine, di una manciata di momenti eroici di alta qualità narrativa, per la loro intensità e insieme per la loro compostezza. Da leggere, per ricordarsi di godere sempre appieno del sole, del gusto delle cose, dell’amicizia – della pace.

Una casetta di Rye, forse simile al cottage di Beatrice Nash
nel romanzo. Foto: ©IpsaLegit2011
«La gente sventolava fazzoletti, ventagli e cappelli, restando a bocca aperta e chinandosi mentre i biplani di abbassavano ronzando sopra le loro teste. La banda attaccò una marcia allegra, quando salirono sopra la guglia della chiesa, per poi girare e scendere ancora, piombando sul fiume come uno stormo d’oche. E poi salirono e passarono ancora sulla folla. Dopo diversi giri nel cielo, la banda attaccò per la quindicesima volta Land of Hope and Glory mentre gli aerei volavano sulla palude. L’ultimo pilota si staccò dalla fila che stava sparendo per esibirsi nel finale, un passaggio lungo e basso parallelo al fiume e alla festa: l’aereo era a un’altezza e a una distanza tali che videro il pilota spingere indietro casco e occhialoni per salutare eccitato la folla. Era il giovane Craigmore, con i suoi capelli d’oro mossi dall’aria, e con un enorme sorriso stampato sul volto».