8 dicembre 2017

Un gentiluomo a Mosca

Un gentiluomo a Mosca di Amor Towles (Neri Pozza 2017, trad. it. di S. Prina) non è tecnicamente un romanzo russo, ma del grande romanzo russo dimostra tutte le caratteristiche: il ritmo quasi incantato, il gusto per i piaceri della vita, la malinconia, il senso dell’amicizia e dei legami familiari imperituri, la solitudine dell’eroe che con paziente saggezza osserva lo srotolarsi del destino e della Storia. Difficile descriverlo questo libro, talmente è bello e ricco e magnetico; difficile credere che il suo protagonista, il Conte Rostov, agli arresti domiciliari dentro un hotel di Mosca da cui si scorge l’ingresso del Bol’šoj, non sia una persona vera, che potrebbe spuntare da un momento all’altro, con la sua giacca bianca e i suoi ricordi, nella cornice di una finestra illuminata dall’altra parte della strada.
Questo romanzo mi ha accompagnata per diversi giorni e oggi, che nella quiete di un pomeriggio di neve, l’ho terminato ascoltando, in sottofondo, il rasserenante jazz di Al Bowlly, mi è dispiaciuto davvero separarmene. Come archiviare le luci dell’Hotel Metropol, che segnano negli anni i suoi trionfi, la sua decadenza e la sua rinascita? Come dimenticare la storia di Nina e della sua piccola Sof’ja, che in chiusura del libro parte per una nuova avventura, ricordandoci quasi una Miranda, o una Viola shakespeariana? Come pensare di spegnere la musicalità di una scrittura meravigliosa, che scorre senza sforzo, evocando quasi per magia le antiche dimore dell’aristocrazia zarista, e poi le infinite nevi della Russia, e la dolcezza dei fiori di ciliegio in primavera, lo scandire inesorabile del regime e l’avanzata di un progresso che non lascia tempo alle spiegazioni? Ed è soprattutto con nostalgia che si chiude questo infinito catalogo di citazioni, dirette e indirette, dalle più svariate forme della cultura europea: il teatro, la musica, la poesia, la filosofia, il cinema… 
Un gentiluomo a Mosca è davvero un’esperienza di lettura – di quelle che non si dimenticano più.

«Davanti a lui si stendeva la città, gloriosa e grandiosa. Legioni di luci luccicavano e turbinavano fino a mescolarsi con i movimenti delle stelle. Vorticavano fino a formare una sfera confusa, dove l'opera dell'uomo si confondeva con quella del Cielo».

20 novembre 2017

Elizabeth the Queen: the Woman Behind the Throne

È il settantesimo anniversario di matrimonio della Regina Elizabeth II con il Duca di Edimburgo, una coppia che ha attraversato le onde tempestose del tempo, e tra glorie e cadute - personali, sociali, familiari - ha resistito con forza fino a oggi. Dedico allora questo post a una lettura di qualche settimana fa, Elizabeth the Queen: the Woman Behind the Throne di Sally Bedell Smith (Penguin 2012), una corposa, studiata e ben costruita biografia della donna che ha superato una guerra mondiale e una guerra fredda, il rischio di una guerra civile e la paura del fallimento della monarchia, e nei cui occhi si legge lo scorrere della Storia. 
Elizabeth, la più longeva sovrana d'Inghilterra, Galles, Scozia, Irlanda del Nord, oltre a quindici altri regni e quattordici territori in tutto il mondo, è presentata in questo libro nella maestà del suo ruolo istituzionale (fatto di tante luci e di ombre proiettate sulla vita privata) e nel suo aspetto personale, che rivela inaspettate espressioni di joie de vivre, piccole manie alimentari, lacrime sincere e fortissime risate. Grazie alle quasi settecento pagine di questo volume, si scopre che Elizabeth tiene un diario quotidiano, che non sarà reso pubblico durante la sua vita; che ama sopra ogni altra cosa le corse dei cavalli; che non ha il passaporto, né la patente, ma naturalmente può viaggiare e guidare (cosa che le piace moltissimo); che non può votare né convertirsi; e che non ha mai rilasciato un'intervista nel corso del suo regno. Le sezioni dedicate alla famiglia di origine di Elizabeth, e soprattutto all'amatissimo padre, "Bertie" (re Giorgio VI), sono intense e delicate insieme; e in generale lo sguardo sull'infanzia di "Lilibet" si addolcisce nel contemplare una bambina con i capelli ricci e tanta voglia di imparare, impegnata a studiare da sola con un istitutore di Eton. Divenne presto una ragazzina compita, intelligente, ordinata e votata al senso del dovere - il primo motore della sua esistenza. Durante la guerra prestò servizio come volontaria e la notte della vittoria (l'8 maggio 1945) si mescolò al popolo festante sparso per le strade di Londra. Un'ampia porzione della biografia è poi naturalmente dedicata al matrimonio con Philip, da cui Elizabeth si sentì attratta fin dal primo giorno e che, sacrificando la maggior parte delle proprie ambizioni personali e della propria identità, le rimase accanto in ogni momento critico della sua vita - in particolare nel giorno in cui appresero la notizia della morte di re Giorgio e la conseguente ascesa di Elizabeth al trono.
La Regina Elizabeth II in una foto di Annie Leibovitz
Il libro abbonda di interessantissimi dettagli, riferiti alla storia della monarchia, alla visualizzazione dei simboli della Corona, al lavoro quotidiano della regina, ai suoi abiti, ai suoi viaggi, alle sue spese, alle dimore reali, fino alla genesi dei suoi ritratti ufficiali. Di grande interesse la trattazione del complesso rapporto di Elizabeth con il Commonwealth, con la politica estera, con i suoi primi ministri (il primo dei quali fu Winston Churchill) e le sue delicate relazioni familiari: con la madre, con la sorella (della quale decise il destino), con i figli.
Elizabeth the Queen è un libro ricco: offrendo fatti, citazioni, un ampio corredo di note esplicative e riproduzioni di fotografie originali, è denso di storie, personaggi, istantanee di una Storia comune e di memorie private, che restano sempre rispettose e accurate, votate a celebrare la forza della personalità di una donna che ha accettato un ruolo totalizzante, impostole dal Caso (come accadde, prima di lei, a suo padre, diventato re dopo l'abdicazione del fratello). Tra le citazioni più suggestive, le parole di Philip, riferite alla propria parte di principe consorte: «There was no choice. It just happened. You have to make compromises. That's life. I accepted it. I tried to make the best of it» e quelle della stessa Elizabeth, pronunciate a Westminster, di fronte alle Camere riunite, nell'anno del Giubileo: «Change has become a constant. Managing it has become an expanding discipline. The way we embrace it defines our future». 

12 novembre 2017

Londra - con gli occhi di Virginia Woolf

Ho concluso la lettura di Londra, una raccolta di saggi di Virginia Woolf, con traduzioni e a cura di M. Fortunato (Bompiani 2017), tutti dedicati alla multiforme bellezza della capitale. Ho letto questo libro a pezzettini, godendomi le miniature così come le vedute panoramiche, le ampie boccate d’aria dei prati cittadini così come le delicate essenze di un salotto che chiude fuori il freddo. I testi raccolti sono articoli, saggi, pagine di diario, ricordi personali che intessono un patchwork ricco e armonico, impreziosito dalla proposta di suggestive mappe della città, che invitano, come ogni volta, a pensare di partire; e l’eleganza e la perfezione della scrittura sono persino esaltanti. 
La prima passeggiata di parole, Per le strade di Londra, si presenta subito come un piccolo capolavoro: il curatore la definisce «un’esperienza primaria di apertura al mondo, […] una ricognizione nella storia del Sé collettivo; […] un affondo nel proprio Io prima dell’Io». Woolf afferma che l’ora migliore per intraprendere questa camminata è verso sera, possibilmente d’inverno, grazie all’aria particolarmente limpida e al buio che scende presto, consentendoci di non essere più noi stessi, mescolandoci alla folla e godendoci le «isole di una luce pallida» accese dai lampioni e le distese d’erba «dove la notte si raccoglie con naturalezza per dormire», ascoltando il frusciare dei rami, il grido di una civetta e il lontano fischiare di un treno. La scrittrice celebra poi le librerie dell’usato, dove possiamo «gettare l’ancora tra le agitate correnti dell’essere» e ritrovare il nostro equilibrio; infine la riflessione ritorna verso casa, dove l’Io ritrova la propria sicurezza grazie alla disposizione degli oggetti nell’ambiente domestico che è rimasta placida e identica, nel corso della nostra scorribanda metropolitana. 
46, Gordon Square
Fra gli scritti più evocativi c’è Vecchio Bloomsbury, in cui Woolf ricorda la casa della giovinezza e poi la genesi di quello che sarebbe diventato il cuore pulsante della modernità occidentale: il circolo di intellettuali e artisti di cui fece parte in prima persona insieme a Vanessa, al futuro marito Leonard, a Duncan Grant, a Roger Fry, a Clive Bell, e a decine e decine di irripetibili ingegni. Il ricordo di una sera di gioventù si coagula intorno a un abito di raso bianco sul pavimento, «nell’aria un vago odore di guanti di capretto. La collana di perle coltivate giaceva sulla toeletta, confusa in mezzo alle forcine» e la dimora degli Stephen ci viene presentata come «un confuso groviglio di emozioni. […] Avevamo permeato l’intero, vasto edificio della storia della nostra famiglia». La penna si sposta poi al numero 46 di Gordon Square – un indirizzo ormai epico per noi lettori – che «nell’ottobre del 1904 era il posto più bello, eccitante e romantico del mondo» e ci descrive i cambiamenti dell’arredamento che si succedettero nel corso degli anni, nonché le avventure dei fratelli e delle loro rivoluzionarie serate tra intellettuali: «C’era sempre qualche nuova idea in cantiere; sempre qualche nuovo quadro da guardare, appoggiato su una sedia, o qualche nuovo poeta ripescato nell’oscurità e messo in piena luce». Quasi eterei sono i ritratti di E.M. Forster e degli altri ospiti di Bloomsbury, nella ricostruzione di un’atmosfera di densità artistica e letteraria che non può che travolgerci di fascino e di nostalgia. 
Di grande forza evocativa, e di grande interesse per me in particolare, Le case degli uomini illustri, in cui Woolf descrive la casa dello scrittore Carlyle e della moglie al numero 5 di Cheyne Row e quella di Keats a Hampstead (dove è «sempre primavera»): «Rami ondeggianti gettano ombre qui e là sui muri bianchi e lisci della casa. Qui […] un usignolo cantò. […] La voce della casa è la voce delle foglie che stormiscono al vento; dei rami che si agitano in giardino. Solo una presenza – quella dello stesso Keats – abita qui. […] Qui sedeva accanto alla finestra e ascoltava senza muoversi, guardava senza trasalire e girava le pagine senza fretta, anche se il suo tempo era così breve».
Londra è una pubblicazione bellissima, da tenere sempre accanto a sé sul comodino, per allontanarsi un po’ dal grigiore quotidiano e sprofondare in un mondo di eccezionale bellezza, fatta di topografia, ma anche e soprattutto delle parole di una scrittrice che non potremo mai smettere di leggere con rinnovato stupore e commossa ammirazione. 

Un articolo dedicato al libro pubblicato su Repubblica la scorsa estate: http://www.repubblica.it/venerdi/articoli/2017/06/15/news/guida_londra_virginia_woolf-168161983/

9 novembre 2017

Neve, strenne e storie di Natale

Cari lettori, tanto tempo è passato dall’ultimo post, perché tante cose sono cambiate… ho cambiato casa e (ri)cominciato un mestiere e in questi primi mesi del nuovo lavoro gli impegni sono davvero tanti! 
Nel frattempo, però, non ho mai smesso di dedicarmi ai libri e oggi sono molto felice di potervi presentare il risultato di quasi un intero anno di lavoro… Qui, fuori dalla mia finestra, il vento freddo ha già spiccato le foglie dorate dei giorni scorsi; l’altro ieri è nevicato e tra una poltrona coperta da un plaid, il profumo delle caldarroste in strada e una cioccolata calda tra le mani sto sfogliando un volumetto nuovo di zecca: una raccolta di racconti di Natale pubblicata da edizioni Croce, dal titolo Neve, strenne e storie di Natale


In questa raccolta, che ho curato e di cui ho scritto l’Introduzione (oltre alla traduzione di alcuni dei racconti) compaiono delle vere e proprie gemme di narrativa natalizia, alcune delle quali inedite in italiano e scovate dopo lunghissime ricerche fra gli archivi… Ecco il sommario: 

- Thurlow e il racconto di Natale (John K. Bangs) 
- Pat Hobby e il suo desiderio di Natale (F. S. Fitzgerald) 
- L’ideale infranto (Maria Messina) 
- Jesusa (Emilia Pardo Bazán) 
- Tilly (Louisa May Alcott) 
- Neanche per idea (Anthony Trollope) 
- College Santa Claus (Ralph Henry Barbour) 
- Il mio primo Natale felice (Mary Elizabeth Braddon) 
- Il sarto di Gloucester (Beatrix Potter) 
- Discesa dalle nuvole (Grazia Deledda) 
Chiude il volume una… gustossima appendice! 

Per scrivere la mia Introduzione, Sotto lo stesso albero. Racconti natalizi fra tradizione popolare, idealità e iconografia, mi sono immersa in un mondo caldo e sfavillante, ma anche profumato di cibo e tradizione, scoprendo aneddoti e storie che non conoscevo, e che spero contribuiranno a rendere il prossimo Natale ancora più speciale. In questo libro troverete racconti di famiglie, di ragazzi, di giochi nella neve, di amicizia, di feste più o meno riuscite, di carità, di ricordi e di nostalgia. La bellezza di queste pagine - che, se lo vorrete, potranno incamminarsi con voi verso il Natale oppure farvi compagnia durante le feste, nella quiete di un salotto illuminato da un camino acceso e nell’eco delle carole - è incorniciata da un’opera grafica deliziosa, che richiama tutto ciò che si narra al suo interno, e con una quarta di copertina che si trasforma, nella magia di un attimo, in un biglietto d’auguri colmo di sorrisi.

SCHEDA DEL LIBRO

Titolo: Neve, strenne e storie di Natale
Autori vari
A cura di Mara Barbuni
Traduzioni di S. Asaro, M. Barbuni, V. Visaggio
Edizioni Croce, Roma 2017
Prezzo: 16€
Uscita in libreria: 30 novembre 2017



20 settembre 2017

Elizabeth Gaskell e George Eliot secondo Sara Grosoli

La scorsa primavera ho intervistato la studiosa Sara Grosoli, che ha tradotto per l'Iguana Editrice alcune lettere inedite di Charlotte Brontë (la nostra conversazione si può leggere qui).
Oggi incontriamo di nuovo Sara, che ci ha gentilmente regalato un suo interessantissimo articolo a proposito della ricerca scientifica e sanitaria nei romanzi di Elizabeth Gaskell e George Eliot. Buona lettura!

MENTE E CUORE: LA RICERCA SCIENTIFICO-SANITARIA 
NEI ROMANZI DI ELIZABETH GASKELL E GEORGE ELIOT 
di Sara Grosoli
                                                                   
È impossibile negare l’importanza che il progresso tecnico-industriale e lo sviluppo delle conoscenze scientifiche ebbero in epoca vittoriana. Gli avanzamenti tecnologici comportarono un significativo miglioramento delle condizioni di vita per la classe medio-alta della popolazione. Con le loro menti percettive scrittrici quali Gaskell e Eliot non potevano ignorare questo fondamentale aspetto della società in cui vivevano e ad esso riservarono spazio all’interno dei loro romanzi. 

Negli eccelsi affreschi sociali offerti da Wives and Daughters e da Middlemarch il tema della ricerca scientifica e della pratica clinica rappresenta un filo rosso che collega l’itinerario creativo di due scrittrici che nella vita non ebbero contatti significativi. Le atmosfere rurali delle prime opere pubblicate da Eliot suggerirono ad alcuni lettori la possibilità che dietro lo pseudonimo maschile si nascondesse Elizabeth Gaskell: lo stesso Dickens nel 1859 ipotizzò che la paternità di Adam Bede, la seconda prova narrativa di Eliot, fosse da attribuire in realtà a Gaskell. Non abbiamo elementi certi per affermare che vi sia stata un’influenza diretta di Gaskell, più anziana di nove anni, su Eliot, ma entrambe condividevano lo stesso milieu culturale*: Wives and Daughters venne serializzato su Cornhill Magazine tra il 1864 e il 1866, mentre sul medesimo periodico George Eliot aveva pubblicato a puntate tra il 1862 e il 1863 il romanzo Romola. G.H. Lewes, il compagno di George Eliot, aveva lavorato nello stesso periodo come consulente direttivo per la Cornhill

In entrambi i romanzi che prenderemo in considerazione ci troviamo a contemplare il volto arcaico della medicina: ritrovati e pratiche che a noi sembrano comuni all’epoca non erano ancora stati concepiti, e non esisteva il servizio di assistenza sanitaria garantito a ogni cittadino. Chi non poteva permettersi di pagare le parcelle del medico doveva affidarsi alla benevolenza di corporazioni assistenzialistiche private: una scena centrale di Wives and Daughters si svolge durante il ballo annuale che le tre cittadine del circondario organizzano per raccogliere fondi a favore dell’ospedale della contea. In precedenza era stato citato l’annuale ballo di beneficienza che la regina Charlotte organizzava a vantaggio di un ospedale per i poveri da lei fatto costruire: tale evento era diventato per la classe aristocratica il centro della season londinese. In Middlemarch è il ricco Bulstrode, il filantropo dall’oscuro passato, a finanziare la costruzione di un ospedale. 

In Wives and Daughters il Dottor Gibson, padre della protagonista, è un medico di campagna, ma si dimostra più perspicace di altri medici di fama: la sua diagnosi riguardo alla natura della malattia di Lady Cumnor si rivela esatta in contrasto con il parere di alcuni rinomati specialisti che esercitano a Londra. Egli è onesto, attivo, talmente franco da risultare talvolta brusco; è cortese, ma mai servile, nei confronti dei propri aristocratici pazienti e cura con lo stesso scrupolo anche i contadini più poveri. Affronta epidemie di febbre tifoidea e scarlattina [1] ed è animato da un profondo spirito di curiosità che gli fa condividere le notizie delle scoperte scientifiche più recenti con i rari uomini di cultura che abitano nelle vicinanze. Tuttavia egli lavora in base ad una concezione artigianale della medicina: come facevano gli artisti rinascimentali, tiene a bottega due giovani apprendisti e insegna loro a preparare manualmente le medicine destinate ai pazienti (lo stesso accade in My Lady Ludlow, altro romanzo di Elizabeth Gaskell, dove le giovani pupille della ricca signora vengono addestrate a confezionare pillole e tonici benefici per i poveri del luogo). I limiti della scienza medica coeva vengono evidenziati dall’impotenza del Dottor Gibson di fronte alla malattia della gentile Mrs Hamley: l’unica cura adottabile è di natura palliativa e l’ammalata si spegne in un dolce torpore provocato dalla somministrazione di oppiacei. 

Nonostante la scienza della psicologia fosse all’epoca solo agli albori, tra i protagonisti del romanzo c’è consapevolezza della natura psicosomatica di alcuni mali e della generale influenza della psiche sul decorso delle malattie fisiche: la tensione nervosa subita da Osborne nel nascondere al padre il proprio matrimonio con una donna di estrazione sociale inferiore acuisce la pericolosità della malattia congenita di cui soffre il ragazzo e a ciò molti attribuiscono la rapidità della sua fine; viene definita “febbre nervosa” l’indisposizione che colpisce Molly dopo le traversie legate allo scandalo sentimentale in cui è stata involontariamente coinvolta e dopo gli sforzi patiti per aiutare la famiglia Hamley nei giorni seguenti alla morte di Osborne; la giovane vedova di Osborne, alla notizia della morte inaspettata del marito, cade in uno stato di catalessi e rifiuta di essere alimentata. In quest’ultimo caso il dottor Gibson capisce che l’unico modo per scuoterla dal torpore è farle sentire il pianto del suo bambino: i tanti anni di pratica medica hanno fatto del dottore un buono psicologo e gli hanno mostrato la forza dell’istinto materno. 

Elizabeth Gaskell
Il dinamismo della ricerca scientifica nell’era vittoriana è rappresentato nel romanzo dal personaggio di Roger Hamley, l’innamorato di Molly Gibson. Egli si occupa di scienze naturali: il comportamento delle api e l’anatomia comparata [2] sono solo alcuni dei suoi interessi. Fa ricerca sul campo osservando la flora e la fauna che popolano la tenuta paterna e prelevandone campioni da analizzare con attenzione. Il personaggio è modellato sulla figura del celebre naturalista vittoriano Charles Darwin. Ricordiamo che Elizabeth Gaskell era legata da una lontana parentela alla famiglia Darwin e condivideva con essa la fede unitariana. Il romanzo, ambientato tra il 1827 e il 1830, illustra l’arretratezza del sistema universitario contemporaneo: all’università di Cambridge non si studiavano le scienze naturali (solo nel 1848 fu possibile farlo), così Roger si laurea in scienze matematiche. 

Nella società provinciale dove risiedono i protagonisti si forma un piccolo circolo interclassista di amanti delle scienze, i cui membri sono soliti scambiarsi i periodici scientifici più aggiornati: il timido Lord Hollingford, non potendo condividere il suo interesse per la ricerca con gli aristocratici suoi pari, è felice di procurare a Roger e al Dottor Gibson un articolo pubblicato su una rivista straniera che parla di osteologia comparata [3]. In seguito Roger pubblica una relazione per confutare le teorie di un celebre fisiologo francese e, nonostante la giovane età, si attira il plauso degli esperti. 

Sempre grazie all’interessamento di Lord Hollingford, Roger ottiene un incarico prestigioso e molto ben retribuito alla guida di una spedizione scientifica in terra africana [4]. Il viaggio è stato finanziato dal lascito testamentario di un ricco erudito che desiderava raccogliere reperti naturalistici in vista della fondazione di un museo che portasse il suo nome. Le lettere spedite da Roger nel corso del suo viaggio vengono lette da Lord Hollingford durante la riunione annuale della Geographical Society e fanno guadagnare al giovane naturalista le lodi degli esperti. Durante la sua missione Roger si ammala di febbre tropicale, ma si cura da solo con la provvista di chinino che aveva portato con sé dall’Inghilterra. 

Prendendo in considerazione la carriera di Roger possiamo osservare il mutamento sociale proprio dell’età vittoriana. In genere il secondogenito di una famiglia aristocratica, non potendo contare sul patrimonio paterno, sceglieva la carriera nelle forze armate (pensiamo a Rawdon Crawley in Vanity Fair di Thackeray) o la professione ecclesiastica (Edmund Bertram in Mansfield Park di Jane Austen). Grazie alle sue doti intellettuali, Roger, invece, conquista una posizione nella collettività che lo emancipa dai tradizionali meccanismi sociali in vigore presso l’aristocrazia terriera: il suo nome diviene noto non in virtù dell’appartenenza a una nobile stirpe, ma per le scoperte scientifiche da lui fatte sul campo. 

In Middlemarch di George Eliot l’elemento della ricerca e della pratica medica confluiscono in un unico personaggio: Lydgate, medico generico e ricercatore di istologia. Lydgate considera la propria professione la migliore in assoluto perché riunisce in sé la possibilità di ottimizzare la vita dell’umanità e l’opportunità di esercitare al massimo livello le facoltà intellettuali di chi ama la scienza. L’amore per il proprio mestiere è ciò che a Lydgate invidia l’amico Farebrother: questi, una delle figure più amabili e simpatiche del romanzo, è un appassionato di entomologia che ha dovuto scegliere la carriera ecclesiastica per sbarcare il lunario. 

Appena il giovane medico giunge a Middlemarch, le prime informazioni che circolano sul suo conto riguardano le sue origini altolocate: lo zio è un baronetto e gli ha procurato una lettera di presentazione per Mr Brooke, un possidente locale che esercita anche le funzioni di magistrato. Il denaro della famiglia ha consentito a Lydgate di frequentare prestigiosi corsi di medicina a Parigi, Londra ed Edimburgo. La menzione di Parigi ha un particolare significato: ci viene detto che Lydgate compie ricerche sul tessuto primordiale che dovrebbe essere alla base della formazione dei vari organi del corpo umano e, infatti, nella capitale francese gli studi di patologia anatomica erano d’altissimo livello perché, a differenza di quel che avveniva in Inghilterra, non c’erano pregiudizi contro la necessità di utilizzare reperti autoptici. Nella mente del popolo inglese, invece, era ancora viva l’eco della storia di Burke e Hare, giustiziati nel 1829 per aver strangolato un gran numero di individui allo scopo di rivendere i loro cadaveri a medici interessati a fare autopsie per lo studio anatomico. Questo caso di cronaca nera portò a coniare il neologismo inglese to burke, che significa appunto “soffocare”. Inoltre l’ostessa di Middlemarch osserva che: «un medico avrebbe dovuto sapere cosa avevi prima che tu morissi, e non frugarti dentro quando eri già morto». 

Quando il medico neofita si insedia nel suo nuovo luogo di residenza, la sua passione per le nuove metodologie terapeutiche incontra la diffidenza iniziale della popolazione locale, che è divisa tra chi sostiene le “cure corroboranti” (somministrazione di bevande alcoliche e di chinino) e quelli che si fidano solo del “metodo debilitante” (uso di salassi e applicazione di vescicanti). 

George Eliot
Lydgate, in realtà, vorrebbe sfruttare gli istinti filantropici dei magnati di Middlemarch per trasformare la vecchia infermeria in un ospedale attrezzato per curare le malattie infettive, un centro da cui un domani potrebbe nascere una scuola di medicina che consenta ai migliori ingegni provinciali di studiare senza per forza dover emigrare nella capitale del regno. Purtroppo egli è distolto dai suoi razionali progetti di miglioramento sociale dalle avvilenti dispute riguardanti la nomina del cappellano ospedaliero: per avere il sostegno finanziario del banchiere metodista il dottore deve votare contro la nomina dell’amico Farebrother, imparando quanto sia difficile conservare la propria indipendenza in una piccola cittadina di provincia dove gli interessi di tutti sono correlati. 

In aggiunta a questo, al giovane medico capita più volte di dover correggere le diagnosi errate fatte dai suoi colleghi più anziani e ciò gli attira le loro antipatie. Contro le meschine rivalità professionali incontrate a Middlemarch, Lydgate trae conforto dall’esempio di Vesalio, il quale fu ingiuriato e diffamato per aver smentito le teorie di Galeno su cui si fondavano le conoscenze mediche del Rinascimento. 

Nell’intento di dare verosimiglianza ai discorsi tra Lydgate ed i suoi colleghi George Eliot consultò ripetutamente il Lancet, la famosa rivista medica di orientamento progressista. Per tracciare la traiettoria della ricerca scientifica compiuta da Lydgate, George Eliot si ispirò a figure reali come François Bichat, chirurgo francese fondatore dell’istologia generale, e Pierre C. Louis, autore di un celebre trattato sulla febbre tifoidea. 

Proprio quando i preparativi fatti da Lydgate per arginare un’epidemia di colera in arrivo da Londra sono stati ultimati, il medico viene implicato nella rovina sociale di Bulstrode. Su di lui si diffondono infamanti dicerie: secondo i nemici del banchiere Lydgate lo avrebbe aiutato ad accelerare la dipartita di un ricattatore a conoscenza della sordida fonte delle sue ricchezze. Tutto ciò, unito ai debiti contratti per mantenere nel lusso la pretenziosa giovane moglie, lo costringe ad allontanarsi da Middlemarch. Forzato dalle necessità familiari ad assumere un incarico poco gratificante presso una stazione termale frequentata da ricchi “malati immaginari”, Lydgate muore a soli cinquant’anni con la sensazione di aver sprecato le proprie risorse intellettuali. 

Un altro elemento di correlazione tra i due romanzi qui analizzati è l’analisi di casi clinici di pertinenza cardiologica. In Wives and Daughters la patologia di Osborne Hamley diventa tassello fondamentale per lo sviluppo dell’intreccio. In Middlemarch, invece, la malattia di Causabon non è un elemento di rottura: il lettore si aspetta che egli muoia prima della giovane moglie, data la grande disparità anagrafica, ma la disfunzione cardiaca del personaggio diventa simbolo della sua personalità inaridita ed anaffettiva. 

Osborne Hamley interpretato da Tom
Hollander nello sceneggiato
Wives and Daughters
Osborne è affetto da spossatezza fisica e difficoltà respiratorie. Avendone notato il passo rallentato, il Dottor Gibson lo scambia per un uomo di cinquant’anni. Gli sente il polso e, essendo affezionato al giovane, spera che il malessere sia d’origine psicologica. Per togliersi ogni dubbio, richiede il consulto di un collega. La diagnosi è infausta: si tratta di un aneurisma dell’aorta. Se è vero che nel 1817 il pioniere della chirurgia Sir Astley Cooper (1768-1841) - che fu presidente del Collegio dei chirurghi e chirurgo di re Giorgio IV e che nel romanzo è citato come ospite di Lord Cumnor ad una cena cui è presente lo stesso Dottor Gibson - eseguì la prima operazione di legatura dell’aorta, dobbiamo aspettare il 1951 per il primo intervento di completa sostituzione di un’aorta danneggiata, ed anche allora il tasso di mortalità si aggirava intorno al 30%. 

In Middlemarch il cuore di Mr Casaubon, un uomo isterilito dall’ambizione intellettuale e incapace di provare passioni, dà segno di sé solo quando si ammala. Lydgate lo ausculta con lo stetoscopio, uno strumento nuovo per l’epoca dato che fu inventato nel 1817. E fu proprio l’inventore dello stetoscopio, Renè Laënnec, a diagnosticare per primo con esattezza la patologia di cui soffre Mr Casaubon: l’ipertrofia cardiaca. La malattia ha una prognosi incerta: come Lydgate spiega alla moglie del paziente, se verranno rispettate alcune precauzioni, ci potrebbe essere una sopravvivenza di quindici anni, ma è pure possibile che la morte sopraggiunga presto ed all’improvviso. 

Ma il cuore può essere anche metaforicamente malato. Come dice, dall’alto della sua esperienza, il Dottor Gibson: «Give me a wise man of science in love! No one beats him in folly!» [5]. Sia Lydgate che Roger Hamley si innamorano di donne d’appariscente bellezza, ma egoiste e vanitose. Mentre Lydgate deve ridimensionare le proprie ambizioni scientifiche a causa della infelice scelta matrimoniale commessa, Roger si salva trovando il vero amore in una donna sensibile e generosa come Molly Gibson. Se è vero che per alcuni Middlemarch è il romanzo del fallimento esistenziale, indubbiamente Wives and Daughters offre uno sguardo di maggiore positività. 

L’amore per la tradizione storica e letteraria non precluse ad autrici di eccezionale sensibilità ed intelligenza come Gaskell e Eliot la possibilità di comprendere l’evoluzione della società inglese indagandone anche i volti non immediatamente riconoscibili. Entrambe colsero l’occasione di vivere in un’età di straordinarie trasformazioni e ne fecero materiale narrativo per le loro opere.


NOTE:
[1] L’unico figlio maschio di Elizabeth Gaskell morì per le conseguenze di questa malattia all’età di un anno appena.
[2] L’anatomia comparata è una branca della scienza sviluppata da Lamarck, Cuvier e Saint-Hilaire. Le dispute tra gli esperti vertevano sulla natura delle specie animali, sulla loro fissità o sulla loro evoluzione. Lo studio dell’anatomia comparata condusse Charles Darwin all’elaborazione della sua teoria sull’evoluzione delle specie.
[3] L’osteologia comparata è lo studio della genesi e della disposizione strutturale dell’apparato osseo.
[4] Charles Darwin salpò per un’esplorazione sovvenzionata dal governo a bordo dell’HMS Beagle. La missione scientifica durò dal dicembre del 1831 all’ottobre del 1836.
[5] «Datemi uno scienziato innamorato! Non lo batte nessuno in quanto ad assurdità» (E. Gaskell, Mogli e figlie, trad. it. di Mara Barbuni, Jo March 2015, p. 675).

* Elizabeth Gaskell e George Eliot si scambiarono anche delle lettere: si veda The Letters of Elizabeth Gaskell, in particolare le lettere 431 e 449 (nota di Ipsa Legit). 

17 agosto 2017

Un'estate fra i libri

È passata la prima metà d’agosto, e prosegue la mia estate concitata e pienissima di impegni, letterari e non solo. L’autunno e l’inverno porteranno un trasferimento e l’inizio di un nuovo lavoro, ma soprattutto delle nuove pubblicazioni, di cui non vedo l’ora di potervi parlare! Questi caldi mesi estivi sono dunque trascorsi tra i libri che mi sono serviti per lavorare: classici e tanta, tanta saggistica critica. Per la sera e le ore libere, dunque, ho scelto narrativa più leggera, riletture e saggi non letterari.
La mia tradizionale immersione nel giallo ha previsto, di J.C. Masterman, Tragedia a Oxford (Polillo), il classico giallo dell’età d’oro, con una coinvolgente voce narrante e la magnifica ambientazione universitaria; di P.D. James, Un lavoro inadatto a una donna (Mondadori), il primo giallo della serie dedicata all'investigatrice privata Cordelia Gray; di Ian Sansom, Il reverendo, le rose e le stravaganze del professore (TEA), un surreale esempio di picaresco moderno, molto intenso e ben scritto nei primi capitoli, in seguito appesantito dalla sua stessa sofisticatezza; di Andrew Nicoll, La vita segreta e la strana morte della signorina Milne (Sonzogno), ben scritto, soprattutto all’inizio, ma che in seguito si “sfilaccia” un po’, per arrivare a una conclusione piuttosto debole; di Agatha Christie, Giochi di prestigio, Polvere negli occhi e È un problema (Mondadori), uno dei suoi capolavori. 
Per la grande letteratura, Ognuno muore solo di Hans Fallada (Sellerio), spietato racconto degli anni del regime nazista nel suo centro nevralgico, Berlino, in un lucido esame della miseria morale dell’uomo; e di Henry James, Roderick Hudson, il primo, grande “romanzo del Grand Tour” della narrativa jamesiana. Per la saggistica, ho letto invece, di Giuseppe Antonelli, Volgare eloquenza (Laterza), un saggio sul linguaggio della politica italiana contemporanea: idea interessante, ma svolgimento molto, troppo semplice – mi aspettavo qualcosa di più; e l’eccellente C’era una volta la Ddr di Anna Funder (Feltrinelli), che con l’andatura di un romanzo mi ha riportata tra le strade di Berlino, per raccontare l’incredibile tragedia del Muro e della normalizzata e sistematica soppressione della libertà personale nella Germania Est.
Infine, sto rileggendo con grande diletto The Distant Hours di Kate Morton, e mi rendo conto che è il suo libro più maturo (insieme a The Secret Keeper): la riflessione sui meccanismi del tempo, l’osservazione della malattia mentale, e soprattutto questa scrittura sempre sotto controllo, che sa dilungarsi anche senza movimenti della trama, incantandoci per il suo inglese splendido, contraddistinto da un lessico prezioso, e inoltrandosi nelle dinamiche del pensiero dei personaggi, nella psicologia dello spazio domestico e nell’antropomorfismo degli oggetti. «Have you ever wondered what the stretch of time smells like? […] Mould and ammonia, a pinch of lavender and a fair whack of dust, the mass disintegration of very old sheets of paper. And there’s something else, too, something underlying it all, something verging on rotten or stewed but not. […] It’s the past. Thoughts and dreams, hopes and hurts, all brewed together, fermenting slowly in the fusty air, unable ever to dissipate completely».
Ora, però, devo tornare a scrivere… Buona ultima parte d’estate a tutti i lettori!

17 luglio 2017

I piccoli piaceri della vita

Ieri, nello spazio di una sera, ho letto La prima sorsata di birra e altri piccoli piaceri della vita di Philippe Delerme (Frassinelli, trad. dal francese di L. Prato Caruso). È un libretto minuscolo, adattissimo a una sera d’estate in terrazzo, con il sole che tira tardi dietro le colline e tanto silenzio intorno. Ogni suo capitolo è dedicato a ciò che l’autore definisce “un piacere della vita” – un oggetto, o un’occasione, sempre densi però di ricordi d’infanzia, e di richiami a una nostalgia insopprimibile e dolcissima. Lo stile è quello fotografico degli istanti, delle impressioni: sono capitoli di una manciata di righe, che proprio per la loro brevità sono capaci di rievocare intensissimi i colori di un’immagine: il nero succoso delle more da raccogliere, il verde tenero dei piselli da sgranare, la maglia giallo acceso del Tour de France, il bianco delle boule de neige. Ma tutti i sensi sono coinvolti in questa catalogazione del piacere malinconico degli oggetti. 
Da diversi mesi sto lavorando sulla valenza memoriale e psicologica che “le cose” assumono nella nostra vita quotidiana: è stato questo il motore della ricerca per la stesura dei miei ultimi saggi (Elizabeth Gaskell e la casa vittoriana e Le case di Jane Austen) ed è sempre questo il centro degli scritti di cui mi sto occupando attualmente. Ci sono oggetti che assorbono una parte di noi, e che ce la restituiscono ogni volta che li guardiamo e li tocchiamo. Il libretto di Philippe Delerme ci parla proprio di questo, della comunicazione con noi stessi che intratteniamo quando percepiamo un certo odore, ritroviamo un certo oggetto, posiamo lo sguardo su un certo gioiello – quando sentiamo, direbbe qualcuno, l’aroma di una madeleine. Una comunicazione che riesce ad annullare, per un attimo, le tracce del passare del tempo.
Foto scattata alla fiera dell'antiquariato di Neuchâtel
Scrive Delerme che in questi istanti, «in questo presente gratuito, sonnecchia il passato»; evoca i marciapiedi deserti della domenica, quando si esce prima di tutti gli altri per comprare le paste o le brioche; richiama il nitore perfetto della «cucina delle undici, la cucina dell’acqua fredda, delle verdure mondate»; dice che «l’odore delle mele è doloroso. È l’odore di […] una lentezza che non meritiamo più»; indugia sulla scelta della tinta di un maglione nuovo per l’autunno, per «comprare il colore dei giorni»; e ritrova, come succede sempre anche a me, il conforto di un romanzo di Agatha Christie, dove, nonostante il delitto, «tutto è calmo. Gli ombrelli sgocciolano nell’entrata e una cameriera dalla pelle di latte si allontana sul parquet biondo lucidato con la cera d’api».

5 luglio 2017

Avremo sempre Parigi

In queste lunghe e calde sere estive, magari dopo una dura giornata di lavoro, c'è sicuramente bisogno di sognare un po'. Sognare passeggiate al fresco, musica lieve lungo le strade, un bicchiere gelato al tavolino di un bistrot. Il libro adatto per simili rêveries è Avremo sempre Parigi di Serena Dandini, una raccolta di "camminate sentimentali" ispirate ciascuna a una delle icone della città. 
L'ho trovato un libro davvero bello, scritto con semplicità e avvolgente come una nuvola di lino, con qualche filo di malinconia intrecciato qua e là tra le righe. Non si raccontano i luoghi già noti, ma le retrovie di Parigi, che sprigionano il ricordo e quasi la presenza fisica dei personaggi che hanno fatto la grande storia della ville lumière. Suggestive sono le decine e decine di citazioni letterarie, che ci restituiscono proprio la vitalità artistica e poetica della città e che l'autrice sparge a piene mani nel suo testo, trasformandolo in una specie di affascinante antologia.
Foto: (c) IpsaLegit 2015 
Muovendosi con grazia tra le voci del suo "disordine alfabetico" - Bistrot, Halles, Impressionisti, Fiori, Passages... - si leggono le storie di Wilde, Hemingway e Dumas, si assaporano gli aromi della Brasserie Lipp, della Closerie des Lilas, del Deux Magots e delle pasticcerie di lusso, si odorano le fragranze dell'erba dei giardini e delle profusioni di fiori al Luxembourg o al Jardin des Plantes, si sprofonda nei colori del Museo Marmottan e delle Ninfee all'Orangerie, si toccano libri invecchiati, fotografie vintage e i tessuti preziosi del Musée de la Mode, si ammirano i negozi nascosti incastonati nei Passages, si assaggiano con la mente le madeleines della nonna di Proust e si vaga pensosi tra le fila di tombe illustri dei cimiteri. Ci si trasforma, insomma, in emozionati flâneurs.

Le Ninfee di Claude Monet. Foto: (c) IpsaLegit 2015

Scrisse Sciascia che le terrazze dei bistrot parigini "fiorivano di tavoli rotondi dalle gambe sottili, e i camerieri avevano l'aspetto dei giardinieri, e quando versavano il caffè e il latte nelle tazze pareva annaffiassero delle bianche aiuole". E Baudelaire: "È una gioia senza limiti prendere dimora nel numero, nell'ondeggiare, nel movimento, nel fuggitivo e nell'infinito. Essere fuori di casa, e ciò nondimeno sentirsi ovunque nel proprio domicilio". 
Foto: (c) IpsaLegit 2015
Chiudiamo gli occhi, allora, e sulla scia di una frase di Simenon immaginiamo "la Senna che scorreva al di là degli alberi, i battelli che passavano, le macchie chiare dei vestiti delle donne sul Pont Saint-Michel".

In questo blog sono più d'uno i post dedicati a Parigi. Per scoprirli, cercate l'etichetta La serie parigina. 
Della Parigi di Edith Wharton ho scritto un pezzo per Turismoletterario.com: http://www.turismoletterario.com/blog/edith-wharton-a-parigi/