5 giugno 2016

Un posto perfetto

Stamattina, complice la quiete del terrazzo e un cielo misto tra il pervinca e il grigio con occasionali spruzzate di pioggia fresca, ho terminato la mia quarta lettura di Penelope Lively, il romanzo Un posto perfetto (Family Album, 2009) edito da Guanda con traduzione di C. Piazzetta. 
È la storia di una famiglia inglese molto numerosa che vive ad Allersmead, una grande casa edoardiana pregna di ricordi. Mentre la madre Allison, archetipo quasi mitico della fecondità, si sforza di mantenere il marito, i figli e la "ragazza alla pari" - che non è più una ragazza ma non li ha mai lasciati - legati in un vincolo insolubile, gli altri personaggi si sforzano di sfuggire al suo abbraccio, talvolta soffocante, e di costruirsi una vita indipendente. 
Come sempre, la scrittura limpida e «dalla grande profondità emotiva» (The Times) di Penelope Lively dimostra un incredibile talento per la narrazione. Gli eventi sono dominati da una penna sicura, perfettamente consapevole di tutte le fasi dell'evoluzione della storia, momento per momento; i livelli del racconto, che si intersecano fluidamente tra una voce narrante e l'altra e da un piano cronologico all'altro, costruiscono con grazia ed eleganza una storia solida e convincente, che gira intorno a un perturbante segreto familiare eppure, contemporaneamente, sa intraprendere numerose altre vie periferiche di analisi della coscienza della specie umana. 
Come spesso accade nella scrittura inglese, lo spazio domestico ha una grande importanza, non solo come teatro degli avvenimenti, ma anche come ricettacolo di atmosfere, di retaggi del passato e di premesse del futuro: «è l'intelaiatura, ciò che permane quando tutta quell'evanescente materia umana è transitata e passata. È un tripudio di impassibili mattoni rossi, piastrelle nere e bianche, boiserie di quercia, vetrata con gigli e acanti. [...] La casa sente tutto. La casa sa.» 
Se Allison vede Allersmead come il luogo naturale dell'espressione dei suoi sogni (forse un po' ammaccati), per i figli quella casa è il luogo dal quale fuggire, pur sapendo che non se ne distaccheranno mai veramente. Alla fine della storia una di loro, Gina, riflette sulla natura più profonda, umana, della casa, risentendo il «profumo lungo un secolo di pane tostato e di arrosto. [...] Gina può ancora distinguere i loro odori... il pranzo della domenica, il coq au vin, lo spezzatino di agnello con patate, la pasta al forno, il crumble di mele. E gli odori la riportano a una Allersmead più intima, alla Allersmead della mente, a una moltitudine di attimi privati che risalgono la lunga e buia corrente degli anni, lo strano assortimento di immagini fugaci che è noto come memoria».

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