28 giugno 2016

I fratellastri

I fratellastri di Elizabeth Gaskell fu pubblicato nel 1859 nella raccolta in due volumi Round the Sofa, che conteneva anche My Lady Ludlow e altre storie. Questo racconto è l’ennesima dimostrazione del fatto che il talento dell’autrice per la narrazione breve è davvero fuori dal comune. Sia nelle storie «gotiche» (tra cui spiccano Storia della vecchia nutrice, Il destino dei Griffith oppure La donna grigia) sia in quelle di contenuto più «terreno», in poche pagine Gaskell riesce a evocare un mondo intero, fatto di scenografie perfettamente delineate e di personaggi che, benché tratteggiati con poche pennellate, sono pieni di carattere e dotati di un’identità inequivocabile. 
Nei suoi racconti la scrittrice sa dominare il trascorrere del tempo con grande maestria: nello spazio di una manciata di righe possono passare pochi minuti oppure un’intera vita, ma la lettura non è mai straniante, e noi ci sentiamo sempre accompagnati con garbo nella comprensione degli eventi narrati. Quando leggiamo queste storie ci sembra di essere uno dei fortunatissimi «ascoltatori» dei racconti di Gaskell: uno di quei suoi tanti affezionati amici che spesso avevano l’opportunità di sedere con lei intorno al caminetto (o «intorno al divano», come suggerisce il titolo della raccolta del 1859) e di sentire le narrazioni prendere vita dalla sua stessa voce. Come le scrisse in una lettera, sempre del 1859, William Wetmore Story (che la ospitò a Roma): «Permetteteci di rivedere il vostro viso e di risentire la vostra voce... Non volete raccontarci un’altra delle vostre affascinanti storie – e regalarci ancora il vivido ritratto di un personaggio?» 
Le Edizioni Croce sembrano aver voluto accontentare questa richiesta, che è anche quella dei lettori italiani, con la pubblicazione di I fratellastri in un volumetto esile ma denso di significati. Alla bella e attenta traduzione di Salvatore Asaro (con il quale ho dialogato qui) si accompagna una mia Postfazione, dedicata al ruolo della natura in questa e in altre opere di Elizabeth Gaskell e alle reminiscenze che le collocano in una temperie chiaramente romantica (parlo di Romanticismo nel senso della corrente filosofica, letteraria, artistica e musicale). 
Accuratissima e davvero interessante è poi l’Introduzione di Michela Marroni, che partendo da una presentazione dei rapporti tra Gaskell e Dickens si inoltra nello studio della narrativa breve della scrittrice esaminando le sfumature delle sue figure «eroiche», la funzione del «caso» e del «destino», gli echi della tradizione popolare e le complesse reti semantiche di natura religiosa che non mancano mai nella scrittura di Gaskell, ma che spesso a noi lettori rischiano di sfuggire. Queste Introduzioni sono fondamentali, perché offrono uno spettro di comprensione del testo letterario così tanto più ampio da aumentare fortemente il nostro piacere di leggere. A dispetto (o forse proprio in virtù) della loro brevità, infatti, i racconti sono densi e infinitamente stratificati: ogni riga è come l’ingresso a un percorso di interpretazione che va sempre più in profondità, regalandoci esperienze di lettura che sono anche molto istruttive. I saggi introduttivi servono a farci da guida in questi percorsi: sono come lanterne che, quando camminiamo dentro una grotta, illuminano per noi le bellezze che si nascondono nelle cavità della terra. 
In I fratellastri possiamo ritrovare molti motivi tipici della scrittura gaskelliana. C’è una figura materna silenziosa, che nutre la propria sofferenza con l’amore riservato ai suoi figli e poi sparisce dalla storia (come avviene per la mamma di Molly, la madre di Sylvia, la signora Hamley, la signora Hale, ...). C’è il racconto complicato di un rapporto tra figli di genitori diversi (come in Mogli e figlie). C’è il tema dell’emarginazione, della solitudine e del vagabondaggio (come nell’ultima parte di Gli innamorati di Sylvia), spesso accompagnato all’idea del sacrificio e dell’espiazione. Ci sono i caratteristici indicatori della «fiaba» identificati nelle teorie narratologiche di Propp (come in Mogli e figlie e in tanti altri racconti). E poi c’è, come in ogni sua opera, un paesaggio che è una «creatura» vivente, e che grazie alla splendida scrittura di Gaskell prende quasi una forma tridimensionale sotto i nostri occhi: mentre leggiamo, il landscape si allarga verso le periferie, si allunga verso l’orizzonte, sale verso l’alto e ci mostra le colline, i dirupi, le cascate, e un immenso cielo dal quale piovono acqua o neve, che può acquietarsi in un tramonto, sul quale spuntano le stelle. Nella mia Postfazione ho voluto proprio esplorare il paesaggio della scrittura gaskelliana, esaminando le sue relazioni con l’emotività dei personaggi e cercando di «visualizzarlo», con l’aiuto di riferimenti alla pittura romantica di Constable, di Friedrich, ma soprattutto di J.M.W. Turner.

25 giugno 2016

Love & Friendship al cinema

Questa settimana ho potuto vedere al cinema Love & Friendship, un film diretto da Whit Stillman e tratto dal romanzo epistolare giovanile di Jane Austen Lady Susan (di cui ho scritto qui). Nella minuscola sala della mia piccola città ho trascorso l'ora e mezza del film in piacevole compagnia di altri due spettatori (una splendida coppia sulla settantina abbondante) che come me sembrano aver apprezzato l'esperienza di vedere un film in inglese con i doppi sottotitoli, in francese e tedesco (dopotutto siamo in Svizzera!) 
Il film, oltretutto, è davvero molto ben fatto. In primo luogo rispetta lo spirito epistolare della storia scritta da Austen, perché i minuti sono divorati dai dialoghi e dai lunghissimi monologhi che riproducono, talvolta testualmente, le lettere del libro. Il regista manifesta le proprie scelte stilistiche sin dall’inizio, quando i luoghi e i personaggi sono presentati allo spettatore con scene statiche, a tutto schermo, un po’ scurite sui margini (con effetto «vignettato»), che ricordano subito delle miniature settecentesche. 
Il film è decisamente «miniaturale» e decisamente settecentesco. Oltre che dalla tendenza alla fissità delle immagini e da musiche che conservano certe risonanze shakespeariane è infatti contraddistinto dall’ironia. Anzi, direi che l’ironia lo pervade, riuscendo a restituirci la natura dissacrante e sarcastica della scrittura di Jane Austen. Tom Bennett, in particolare, regala al personaggio di Sir James Martin una comicità che ha strappato qualche sonora risata sia a me che ai miei due compagni di «visione» e i siparietti tra Lady e Lord De Courcy (interpretato da James Fleet, già John Dashwood in Sense and Sensibility del 1995) sono spassosissimi. Confermano l’identità settecentesca della storia le scelte dei costumi (gli abiti delle signore sono precedenti a quello stile Impero al quale siamo stati abituati a vederli finora), tra cui spiccano due notevoli esemplari in tessuto a righe, e il ritratto di un Sensibility man («uomo della Sensibilità»), rappresentato dagli occhi lucidi di lacrime di Reginald de Courcy. 
Le scenografie sono suggestive, molto attente a mostrare soggiorni, ingressi, stanze da letto, salottini privati che abbondano di oggetti come libri, candele, ritratti. Un aspetto specifico dell’uso della cinepresa ad avermi affascinata è, in particolare, la presenza ricorrente di «soglie»: porte, finestre e cancelli ritornano continuamente. Un paio di scene esterne, che sono volutamente limitate dalle «soglie» o «confini» del parco di Churchill, sono evidenti citazioni da Sense and Sensibility del 1995; le scene interne, invece, sono spesso rappresentate, in modo molto intelligente e originale, in secondo piano rispetto alla cornice offerta da una porta socchiusa. Questa scelta stilistica mi ha da una parte ricordato che le «cornici» (di natura sociale, economica, culturale e persino biografica) di un testo non devono mai essere trascurate, e dall’altra costruisce un efficacissimo senso di eavesdropping (la parola inglese per «origliare»), che sottolinea la portata trasgressiva della storia rappresentata, fedele all'originale. 
Come scrive Diego Saglia (Leggere Austen, Carocci 2016, pp. 97-99), infatti, «[Lady Susan] è la controparte femminile del personaggio di Lovelace [...] [sulla quale] Austen ci impedisce di formulare un giudizio netto. […] l’autrice ci porta a preferire la voce franca, diretta e spregiudicata della protagonista e la sua visione egoista e corrotta del mondo. […] [Lady Susan] non si pente delle sue macchinazioni, né si ravvede e si vota alla virtù. Ma non viene neppure punita dalla giustizia narrativa dell’autrice». 
Una nota di merito conclusiva va a Kate Beckinsale, che da giovanissima e candida Emma (miniserie ITV, 1996) si è saputa tramutare in una Lady Susan enigmatica e credibilissima – con un accento British davvero irresistibile. Potete «assaggiare» il fascino suo e dell'intero film già nel trailer:
https://www.youtube.com/watch?v=8MaSK3POHI0

Questo post è stato pubblicato, con qualche variazione, anche su www.jasit.it

19 giugno 2016

Raggi di luna

Stamattina ho chiuso l’ultima pagina di Raggi di luna di Edith Wharton (Bollati Boringhieri 2015, trad. it. di M. Biondi). The Glimpses of the Moon (titolo tratto da un verso dell’Amleto) uscì nell’agosto del 1922, un anno dopo che l’autrice si era guadagnata il Premio Pulitzer per il suo capolavoro, L’età dell’innocenza; è un libro ancora una volta basato sui temi dell’amore, del matrimonio e delle difficoltà di proteggere queste due fragili e preziose esperienze della vita umana da una società dominata dalla falsità, dalle convenienze e dalla necessità costante di accumulare e di spendere denaro («sapeva quanto è fragile il filo a cui sta appeso chi non ha un centesimo»). 
Nella sua autobiografia, A Backward Glance (pubblicata in italiano con il titolo Uno sguardo indietro), Wharton parla di Raggi di luna in riferimento al contesto del primo dopoguerra. Di questo periodo scrive: «La morte e il lutto erano come tenebre sulle case dei miei amici e io soffrivo con loro, e fondevo il mio cordoglio privato con il dolore di tutti», nel patire «il crescente senso di spreco e di perdita dovuto agli irreparabili anni della guerra». Per questo Raggi di luna offre, secondo lei, «una via di fuga dai recenti, spaventosi anni». 
In effetti, questo romanzo, pur ricordando per molti versi – e soprattutto nella sua protagonista, Susy – il tragico La casa della gioia, appare più “leggero” di altre opere di Edith Wharton, essendo molto concentrato sull’intreccio amoroso piuttosto che sulla disamina, tipica di altri suoi libri, della complessa e stritolante meccanica sociale. Al momento della sua pubblicazione ebbe un grande successo di pubblico, ma la critica iniziò a intravvedere una certa lontananza della scrittura dell’autrice da quelle che stavano diventando le istanze rivoluzionarie della letteratura contemporanea, rappresentate da lavori come Terra desolata di T.S. Eliot o Ulisse di Joyce; è innegabile, tuttavia, che nella rappresentazione precisa della vita mondana dei personaggi di Raggi di luna, sembrano comparire motivi che si ritrovano anche in Il grande Gatsby (1923).

La grande bellezza di questo romanzo, come spesso avviene in Wharton, sta nella sua rievocazione del “sense of place”. I due protagonisti, Susy e Nick, da tipici espatriati americani, si spostano su e giù per l’Europa andando incontro a “raggi di luna” destinati a spiovere sempre su splendidi paesaggi, la maggior parte italiani. La loro storia coniugale inizia in una villa sul Lago di Como, le cui piccole onde si fanno «più ampie, riducendosi infine a una serica levigatezza, mentre alta sopra le montagne, in un cielo spolverato di stelle sempre più evanescenti, la luna stava passando dall’oro al bianco». Lasciata Como, i due si spostano, sempre squattrinati e sempre ospiti dell’interessata generosità altrui, nella cornice stregata di Venezia, dove il sole «entrava a fiotti attraverso le tende di vecchio broccato, e la sua rifrazione dalle increspature del canale tracciava un reticolo di scaglie dorate sul soffitto a volta» e, nel crepuscolo, la prua delle gondole «scivolava sopra il riflesso capovolto dei palazzi e nel profumo di giardini nascosti». Non può mancare, infine, una fotografia di Parigi, la tanto amata Parigi di Edith Wharton, con «il reticolo della città vecchia, le grandi volte grigie di St. Eustache, le vie gremite del Marais».

5 giugno 2016

Un posto perfetto

Stamattina, complice la quiete del terrazzo e un cielo misto tra il pervinca e il grigio con occasionali spruzzate di pioggia fresca, ho terminato la mia quarta lettura di Penelope Lively, il romanzo Un posto perfetto (Family Album, 2009) edito da Guanda con traduzione di C. Piazzetta. 
È la storia di una famiglia inglese molto numerosa che vive ad Allersmead, una grande casa edoardiana pregna di ricordi. Mentre la madre Allison, archetipo quasi mitico della fecondità, si sforza di mantenere il marito, i figli e la "ragazza alla pari" - che non è più una ragazza ma non li ha mai lasciati - legati in un vincolo insolubile, gli altri personaggi si sforzano di sfuggire al suo abbraccio, talvolta soffocante, e di costruirsi una vita indipendente. 
Come sempre, la scrittura limpida e «dalla grande profondità emotiva» (The Times) di Penelope Lively dimostra un incredibile talento per la narrazione. Gli eventi sono dominati da una penna sicura, perfettamente consapevole di tutte le fasi dell'evoluzione della storia, momento per momento; i livelli del racconto, che si intersecano fluidamente tra una voce narrante e l'altra e da un piano cronologico all'altro, costruiscono con grazia ed eleganza una storia solida e convincente, che gira intorno a un perturbante segreto familiare eppure, contemporaneamente, sa intraprendere numerose altre vie periferiche di analisi della coscienza della specie umana. 
Come spesso accade nella scrittura inglese, lo spazio domestico ha una grande importanza, non solo come teatro degli avvenimenti, ma anche come ricettacolo di atmosfere, di retaggi del passato e di premesse del futuro: «è l'intelaiatura, ciò che permane quando tutta quell'evanescente materia umana è transitata e passata. È un tripudio di impassibili mattoni rossi, piastrelle nere e bianche, boiserie di quercia, vetrata con gigli e acanti. [...] La casa sente tutto. La casa sa.» 
Se Allison vede Allersmead come il luogo naturale dell'espressione dei suoi sogni (forse un po' ammaccati), per i figli quella casa è il luogo dal quale fuggire, pur sapendo che non se ne distaccheranno mai veramente. Alla fine della storia una di loro, Gina, riflette sulla natura più profonda, umana, della casa, risentendo il «profumo lungo un secolo di pane tostato e di arrosto. [...] Gina può ancora distinguere i loro odori... il pranzo della domenica, il coq au vin, lo spezzatino di agnello con patate, la pasta al forno, il crumble di mele. E gli odori la riportano a una Allersmead più intima, alla Allersmead della mente, a una moltitudine di attimi privati che risalgono la lunga e buia corrente degli anni, lo strano assortimento di immagini fugaci che è noto come memoria».

Altri post su Penelope Lively:
http://ipsalegit.blogspot.ch/2013/08/l-in-cui-tutto-cambio.html
http://ipsalegit.blogspot.ch/2015/08/amori-imprevisti-di-un-rispettabile.html

1 giugno 2016

Tempo immemorabile

Rachel Field
Il mese di maggio appena finito è stato brutto e difficile. Sono stata un po’ aiutata a superarlo da un romanzo molto bello e intonato al momento, fatto della storia di un grande amore ma soprattutto del racconto della formazione (o forse, meglio, della metamorfosi) di un’identità. Il libro è Time Out of Mind (1935) di Rachel Field, che si trova anche in edizione italiana con il titolo Tempo immemorabile (Elliot 2014, trad. it. di D. Vallesi). L’americana Rachel Field, autrice di fiction e di poesia, divenne celebre per la sua letteratura per l’infanzia, ma dai suoi libri “da grandi” furono tratti anche dei film: Time Out of Mind, in particolare, fu trasposto su pellicola nel 1947. 
La storia si dipana lungo il corso di un paio di decenni, alla fine del diciannovesimo secolo. La protagonista e io narrante, Kate, è la figlia di una domestica che vive nella residenza dei Fortune, facoltosa famiglia del Maine le cui ricchezze provengono dalla costruzione di imbarcazioni e di velieri. Benché di bassa estrazione sociale, Kate cresce a stretto contatto con i figli del maggiore Fortune, Nathaniel e Clarissa, e il legame che instaura con loro perseguiterà la sua esistenza fino al giorno in cui, da anziana, deciderà di mettere su carta i suoi ricordi. È un legame di amicizia, di amore, di interdipendenza, che dalle gioie della prima fanciullezza passa a ingenerare sentimenti di passione sfrenata (a tratti sembra di rileggere Cime tempestose) e di doloroso straniamento; a causa del vincolo che la tiene legata ai Fortune, Kate finisce per non appartenere più a niente e a nessuno: né al mondo in cui è nata e alla gente che lo abita (la popolazione più umile del villaggio), né, naturalmente, all’alta società di cui fanno parte Nathaniel e Clarissa. 
La scrittura è molto bella, ricca di musicalità disparate e di una forte capacità di evocazione visiva. Nella prima parte il protagonista è il mare: la sua potenza appare sempre all’orizzonte e la scena del varo del veliero sventurato, il Rainbow, è indimenticabile per i suoi richiami sonori, che ci riecheggiano nelle orecchie per tutto il resto del libro, e per la densità dei suoi significati, intimamente connessi al senso del destino. Seguono intensissime scene naturali, in cui risplendono fioriture quasi incantate, immagini di gelate e di tempeste, e richiami al valore dell’arte (la musica e la pittura in particolare) nella vita dell’essere umano.
Acute e commoventi sono le riflessioni della narratrice sul valore del Tempo nella nostra vita. Simboleggiato dalla presenza ricorrente di un orologio a pendolo francese, «marmoreo e dorato», appartenuto prima ai Fortune e poi alla stessa Kate, il Tempo diventa in questo libro un’entità quasi concreta, che si manifesta come un meccanismo ineluttabile, assumendo di volta in volta le forme delle stagioni in mutamento e dei loro frutti (fragole e mele hanno un significato importantissimo); degli spartiti musicali su cui Nathaniel perde la ragione; della scomparsa del paesaggio per l’avvento del progresso; e infine dei cambiamenti che intervengono sul corpo degli uomini a causa dell’età e del dolore. Voltando una pagina dopo l’altra, assistiamo alla trasformazione quasi mitica, quasi mistica, di Kate, da essere umano membro di una comunità a elemento della natura, condannato alla solitudine e all’isolamento, ma destinato a quella impalpabile serenità che deriva dall’aver trovato il proprio posto nell’ondivaga dimensione del mondo dentro lo spazio. «Le persone possono abbandonarti. Muoiono, partono, si staccano da te con parole violente: ma la terra, gli alberi, le mura protettrici e ospitali non ti tradiscono mai in quel modo. […] Andai nel frutteto un tardo pomeriggio di maggio, e vi rimasi fino a quando i miei capelli e le mie spalle furono tutti bianchi di una pioggia di petali. Il ronzio di migliaia di api sospese sui tremuli calici rosei dei fiori pareva il fruscio di una corrente che fluisse a perdersi nel mare, tra gli scogli lontani. C’era qualcosa di spasmodico, di fuori dal tempo, in quella pulsazione occulta di vita che mi stordiva e mi dava le vertigini. […] Avevo sempre saputo che, per ogni mela destinata a crescere e a maturare, centinaia di fiori cadevano e si sperdevano ai venti. Ma quel giorno lo constatai con una specie di panico, perché sapevo che anche agli esseri umani può toccare la stessa sorte che ai meli di maggio».