26 dicembre 2016

Di libri, di Natale e di Ottocento

Cari lettori di Ipsa Legit, spero stiate trascorrendo belle giornate di festa e che, come avviene per tradizione in Islanda, possiate approfittarne per dedicarvi in tutta calma alle vostre letture! 
La coincidenza tra il periodo delle strenne e l'idea del libro mi fa sempre pensare a quanto, lungo l'intera storia dell'editoria "di massa" fino a oggi, persino la lettura abbia corso e corra il rischio di diventare oggetto di una fruizione rapidissima e distratta. I libri si pubblicano, si comprano, si ammassano e si leggono voracemente, come se si fosse impegnati in una competizione a chi accumula più titoli: ma è davvero questo lo scopo del leggere? Negli ultimi tempi io ho deciso di limitare la quantità e di privilegiare esclusivamente la qualità dei libri che mi fanno compagnia: mi lascio guidare dal mio gusto personale e da quello di un gruppetto ristretto di persone fidate; chiudo le newsletter pubblicitarie delle case editrici e i vari gruppi di lettura virtuali; mi affido ai cataloghi bibliotecari; seleziono un volume solo dopo aver considerato attentamente la trama, la storia dell'autore e le intenzioni dell'editore e dopo aver letto qualche pagina iniziale, e metto a tacere le mille voci e le mille luci che baluginano come specchietti per le allodole dalle vetrine delle librerie (reali o virtuali). Seguendo questo "metodo" sono riuscita a scoprire e a leggere, negli ultimi due anni, dei libri indimenticabili, dei veri grandi libri, di cui voglio riportare un breve bilancio: 
- Kate Atkinson, Un dio in rovina
- Rachel Field, Tempo immemorabile
- Mary Ann Shaeffer, La società letteraria di Guernsey
- Penelope Lively, Amori imprevisti di un rispettabile biografo
- Simon Mawer, La casa di vetro
- Edith Wharton, La casa della gioia
- Angela du Maurier, Treveryan
- Edmund de Waal, Un'eredità di avorio e ambra
- Ernest Hemingway, Festa mobile
Anche nell'ambito dei classici ottocenteschi (sapete della mia intensa passione per la letteratura vittoriana...) ho deciso di resistere alla furiosa moltiplicazione delle pubblicazioni e di tracciare confini piuttosto netti, con il solo scopo di poter concentrare il mio tempo e la mia attenzione su una manciata di opere di valore superiore, che hanno tanto da insegnare e da dare, e che meritano una lettura profonda, silenziosa, ragionata ed esplorata. Noto che l'Ottocento letterario inglese è spesso vittima di semplificazioni, di riduzione a un'antologia di icone bidimensionali, di punti di vista stereotipati che annullano la sua identità complessa, multiforme, quasi inafferrabile: quando si legge un'opera di letteratura, invece, è necessario svestirsi delle sovrastrutture imposte dalla massificazione del libro ed entrare a capofitto nel testo, sviscerando ogni singola frase, interrogandosi sulle parole e sulla struttura del racconto, alla ricerca degli strati dei significati che rendono l'oggetto che teniamo in mano una vera estrinsecazione dell'umanità, e una parte di noi stessi.
L'augurio che ci rivolgo per queste feste e per il prossimo anno è dunque proprio quello di scoprire l'immensità dell'alta narrativa e della poesia, immergendoci nel silenzio delle nostre poltrone e nella luce della nostra mente di lettori, e disposti a lasciarci cambiare - in meglio - dalle pagine che giriamo, l'una dopo l'altra, in una ricerca personale e culturale piena di fascino. 
La speranza, naturalmente, è che Ipsa Legit possa essere anche per voi un angolo quieto nel quale rifugiarvi per dedicarvi alle vostre ricerche e alle vostre avventure letterarie :) A presto! 

30 novembre 2016

Un dio in rovina

La scorsa settimana ho terminato di leggere un romanzo che entrerà immediatamente nella mia lista dei “da consigliare”. È Un dio in rovina di Kate Atkinson, un libro di quelli dai toni un po’ epici, che racconta la lunga storia di Teddy dalla prima giovinezza fino alla vecchiaia. I piani temporali della storia si intrecciano continuamente, ma la scrittura è così controllata che non ci si confonde mai. Teddy è un animo poeticissimo – il romanzo è cosparso di citazioni di versi, da Hopkins, Blake, Wordsworth, Shakespeare, ... – il cui unico desiderio è una vita semplice e agreste: «un uomo poteva misurare la propria vita in mietiture». Gli piace osservare i modi placidi della natura, gli insetti, le allodole, la forma delle foglie e dei fiori; ama le serate tranquille trascorse a leggere, in compagnia della moglie, davanti al caminetto; adora i cani della sua vita, suoi fedeli e commoventi amici. Lo spaccato storico presentato da questo libro sono gli anni tra la prima e la seconda guerra mondiale, a cui Teddy partecipa in prima persona, come aviatore della RAF. Il racconto della sua esperienza bellica è continuamente accennato, ma mai pienamente esplorato, se non alla fine del libro – e la spiegazione e lì, evidente, straniante e bellissima.
Il romanzo è pervaso dall’amore per i libri, il solo tratto che Viola, la figlia di Teddy, abbia ereditato dal padre: «la sua adolescenza era stata un soggiorno del XIX secolo, nelle brughiere delle sorelle Brontë o infastidita dai rigori dei salotti di Jane Austen. Il suo amore romantico era Dickens, lamica intransigente era George Eliot. Al momento, Viola stava rileggendo una vecchia edizione di Cranford». Altro tema fondante della storia, che però non si impone di prepotenza all’attenzione del lettore, è il ruolo del tempo, dentro e fuori la vita degli uomini. Il tempo è un’essenza che in questo libro cambia continuamente identità, passando dall’essere il semplice orologio dell’esistenza alla natura stessa dei ricordi; da dimensione storica e filosofica («Nel 1947 il tempo era ancora una quarta dimensione sulla quale si era certi di costruire la vita quotidiana») a enigma della narrazione, della nascita, dell’essere e della morte: entità astratta eppure concreta, che ci obbliga, nonostante tutto, a una sospensione del giudizio.
È sul tempo che si gioca il colpo di scena finale di questo romanzo. In Un dio in rovina, insomma, si trova un talento del narrare che non ho trovato comune negli autori contemporanei; la scrittura è bellissima (e la traduzione di A. Storti per questa edizione Nord le rende di certo onore), Teddy è un personaggio che entra nel cuore, e alcuni istanti, che passano come subitanei flash colmi di senso e di sensi, sono indimenticabili. «La distesa di grano era punteggiata di papaveri, macchioline di sangue sulloro»; «C’era soltanto un bellissimo silenzio ultraterreno. Pensò al bosco, alle campanule, al gufo e alla volpe, a un trenino Hornby che rullava sul pavimento della sua cameretta, al profumo di una torta in forno. L’allodola in ascensione sul filo del suo canto».

28 novembre 2016

Cronache dal Faro

Cari lettori, lo scorso fine settimana ho avuto l’opportunità di navigare un po’ nel grande mare della letteratura, che per mia fortuna era contenuto “in una stanza”, e illuminato da uno splendido “faro”. Ho partecipato infatti al primo festival italiano dedicato a Virginia Woolf, Il faro in una stanza, appunto, che oltre ad aver richiamato una quantità di convenuti davvero inaspettata, ha scritto, credo, un pezzettino della storia della reception contemporanea di Virginia Woolf in Italia. Il festival, che ha avuto luogo a Monza dal 25 al 27 novembre, è stato organizzato da (in ordine alfabetico): Elisa Bolchi, giovane, competente e appassionata studiosa woolfiana; Raffaella Musicò, la libraia che tutti vorremmo e dovremmo incontrare, che lo scorso aprile ha aperto la libreria Virginia e Co. a Monza (la e del nome non è commerciale: quel Co. contiene infinite voci letterarie...); Liliana Rampello, alla quale dobbiamo le molteplici e bellissime chiavi che ci hanno aperto veri e propri giardini di interpretazione dell’opera di Virginia. Consiglio di leggere il suo Il canto del mondo reale e l'antologia di saggi da lei curata Voltando pagina.
La prima sera del festival abbiamo assistito alla rappresentazione dell’unica commedia di Virginia, Freshwater, che sono stata invitata a introdurre: il luogo dell’azione è la Freshwater sull’isola di Wight, centro di una comunità di artisti e letterati che sembra un po’ una anticipazione del Circolo di Bloomsbury. A Freshwater la padrona di casa era Julia Margaret Cameron, di cui ho scritto già altrove in questo blog, e che è, insieme a Ellen Terry, la protagonista del mio racconto Ellen e Julia (pubblicato nella raccolta, edita da Iguana, Soffia un vento contrario). Se vi interessa godervi questo esperimento teatrale, potete leggere Freshwater nella bella edizione Nottetempo a cura di Chiara Valerio, disponibile sia in formato cartaceo che in ebook.
La giornata di sabato è stata densissima: la sessione si è aperta con un intervento di Raffaella Musicò sul ruolo democratico delle biblioteche e delle librerie, ed è proseguita con una conversazione tra Raffaella e Sandra Petrignani, l’autrice, tra le altre cose, di La scrittrice abita qui (Neri Pozza): uno splendido viaggio nelle case di grandi scrittrici della storia della letteratura, tra le quali compare anche Monk’s House, la suggestiva dimora di Virginia poco fuori Londra. Nel pomeriggio, Elisa Bolchi ha intrattenuto con Sara Sullam (traduttrice e studiosa milanese di Woolf, Joyce, e tanto altro) una conversazione sui romanzi di Virginia Woolf: con grande entusiasmo e sapienza, Elisa e Sara ci hanno parlato di La signora Dalloway e Al faro, ma anche di La crociera (con i suoi ribaltamenti di certi contenuti austeniani), di Notte e giorno (che personalmente amo tantissimo) e dei saggi come Una stanza tutta per sé. Sara ha ricordato le importantissime metafore musicali della prosa woolfiana, che legano le pagine tra loro come in una rapsodia, e ha attirato la nostra attenzione sulle figure dei poeti (che compaiono con grande frequenza nei romanzi di Virginia), e sulle situazioni collettive, in cui i gruppi di personaggi sono tenuti insieme dal filo serpentino del sempre mutevole punto di vista della narrazione (come per esempio nell'episodio della cena in Al faro). 
La sessione si è conclusa con la presentazione di una nuovissima edizione dei racconti di Virginia, pubblicata dalla Racconti Edizioni e intitolata Oggetti solidi. L'opera è curata da Liliana Rampello, che ci ha parlato delle infinite possibilità di interesse, di pura bellezza e di riflessione che questo volume può offrire ai lettori. Io l'ho iniziato in treno, e lo consiglio spassionatamente. 
Domenica mattina Liliana Rampello ha conversato con Bianca Tarozzi, la traduttrice dei Diari di Virginia Woolf. Siamo così entrati in un mondo pieno di fascino, imparando che Virginia scriveva il suo diario la sera, tra il tè e la cena, e che lo trattava come un quaderno di esercizi, utile, diceva, per “sciogliere le giunture”; Bianca Tarozzi ha evocato i manoscritti, che sono conservati a New York (Berg Collection), e che appaiono ordinatissimi e privi di cancellature (quando invece i romanzi testimoniano tutta la “fatica” della scrittura). Il festival si è concluso con un ultimo intervento di Elisa Bolchi, che, rispondendo alle domande della sempre avvincente Raffaella Musicò, ci ha raccontato storie davvero magnetiche sul rapporto tra le opere di Virginia e gli editori italiani, sulle traduzioni “pericolose” e sempre a rischio di censura negli anni del fascismo, e sulle meraviglie degli archivi letterari del nostro Paese. 
Come ho detto a Raffaella (nel corso di una cena per me indimenticabile), per tutto ciò che ho imparato durante il festival mi sembra di aver concentrato in due giorni un percorso universitario triennale: la felice disponibilità del pubblico ad ascoltare e ad apprendere, e l'enorme generosità delle studiose che hanno condiviso le loro conoscenze sono state le caratteristiche principali di questo evento, che speriamo sia solo la prima tappa di un lunghissimo percorso di amicizia e di amore condiviso per la grande letteratura.

5 novembre 2016

Tra lettura e scrittura. Lavori in corso

Cari lettori, da quasi un mese non pubblico una delle "esperienze di lettura" per cui è nato questo blog... e la semplice ragione è che non sto leggendo niente di nuovo!
La cartella del mio e-reader che ho denominato Comodino (in cui si trovano i libri che hanno priorità rispetto alla cartella Scaffale...) sta per scoppiare, ma non posso mettervi mano fino a che non sarò arrivata alla conclusione di due progetti che per me hanno un'importanza enorme. 
Sul mio Comodino virtuale sono impilati, in questo momento: La strada bianca di Edmund De Waal, che ho cominciato e ho dovuto lasciare da parte - con grande dispiacere perché è una meraviglia; Il caso di Joseph Conrad, I biscotti di Baudelaire di Alice Toklas (la compagna di Gertrude Stein), che forse terrò lì "in caldo" per Natale; la monumentale biografia di Lord Tennyson in inglese; un romanzo di Edith Wharton, due di Penelope Lively e infine Concerto di una sera d'estate senza poeta di Klaus Modick.
Quali sono i due motivi per cui questi libri se ne rimangono lì chiusi?
Il primo è che alla fine di questo mese parteciperò a un bellissimo progetto letterario e di divulgazione, Il faro in una stanza, un festival interamente dedicato a Virginia Woolf che avrà luogo a Monza tra il 25 e il 27 novembre. Il mio compito sarà quello di presentare/introdurre Freshwater, la commedia (che sarà rappresentata la sera del 25) che Virginia Woolf scrisse per celebrare la vivida e allegra comunità artistica raccolta intorno alla zia-fotografa, Julia Margaret Cameron.
Del secondo progetto non posso rivelare i dettagli, perché è ancora una sorpresa: anticipo solo che si tratta della stesura di un saggio, che traccia un percorso di lettura e di analisi letteraria. È un progetto che ha richiesto coraggio e un pizzico di avventatezza, ma, dopo la grande preoccupazione iniziale, in questi giorni sto scrivendo con passione ed entusiasmo, recuperando anche la bellezza e il gusto dell'opera letteraria "pura", libera dalle tante, molteplici, infinite identità che i libri assumono quando diventano, giustamente, patrimonio di tutti.
Da quando ho cominciato a occuparmi di divulgazione letteraria ho avuto l'opportunità di osservare direttamente i fenomeni della reception, ovvero delle modalità con cui il pubblico riceve, fruisce e si appropria di un'opera di letteratura. È questo un insieme di dinamiche molto affascinanti, che rivela infiniti aspetti della psicologia, della storia umana, della sociologia, del rapporto del presente con il passato, delle potenzialità della comunicazione e di come il testo letterario si sappia trasformare e adattare al suo ricevente, a chi lo legge e lo interpreta. Posso "guardare" la ricezione letteraria da punti di vista privilegiati, come l'associazione dedicata a Jane Austen e la mia pagina su Elizabeth Gaskell, e mi incuriosisco sempre a studiare le forme dell'interesse dei lettori per i grandi classici. Di quando in quando, però, sento il bisogno di ritornare io stessa una semplice lettrice e di dedicare l'attenzione alla mia personale interpretazione del testo. Il saggio che sto scrivendo marcia in questa direzione, e spero che quando sarà pubblicato potrà essere un punto di vista utile e stimolante anche per altri appassionati di letteratura.

7 ottobre 2016

La casa nella brughiera

È di questi giorni l'annuncio del debutto sulla scena letteraria italiana di La casa nella brughiera (The Moorland Cottage), pubblicato da Edizioni Croce a cura di Raffaella Antinucci.
La casa nella brughiera è una delle novelle di Elizabeth Gaskell (insieme a Cousin Phillis, A Dark Night’s Work e My Lady Ludlow) ed uno dei suoi scritti più commoventi, dallo stile più bello e poetico. Pubblicato nel 1850 per l’editore Chapman (con il quale Gaskell ebbe un rapporto sempre difficile), è un racconto di campagna dall’andamento misurato, dominato dalla struggente bellezza della brughiera dell’Inghilterra centrale. La trama si svolge intorno alla storia d’amore tra la figlia di una vedova povera – una donna del tutto incapace di fare la madre – e il rampollo di un ricco gentiluomo del posto; il loro rapporto però è reso accidentato dalle intemperanze del fratello di lei, ambizioso e viziato sin dall’infanzia, il cui carattere presto scivola nella freddezza e nell’immoralità. 
In questo racconto lungo, Elizabeth Gaskell, pur agli esordi della sua carriera di scrittrice, dimostra un finissimo talento per la strutturazione dei dialoghi, che rivelano la sua profonda conoscenza della psicologia dei bambini e degli adolescenti. Maggie, la protagonista, è una ragazzina piena di sogni complessi e d’amore incompreso, una sorta di “bozza” di quello che sarà l’ultimo personaggio della penna di Gaskell, la Molly Gibson di Mogli e figlie (tutto il racconto è, in realtà, una prova del grande romanzo finale): assistiamo alla sua crescita in un ambiente domestico ostile, con una madre gelida, negligente e vanesia, alleviato dalla presenza di un’amica dell’alta società – una figura materna piena d’affetto per lei – che è il chiaro prototipo di Mrs. Hamley.
Quest’opera anticipa anche altri temi della narrativa matura di Elizabeth Gaskell, come per esempio le atmosfere fiabesche evocate dentro la testa dei bambini, l’esplorazione della stagionalità come archetipo dell’esistenza umana (come in Cousin Phillis) la rappresentazione dei pericoli dell’orgoglio e dell’ambizione sfrenata (come in A Dark Night’s Work) e la ricerca della solitudine da parte di una giovane donna sconcertata dal dolore (come in Gli innamorati di Sylvia).
Una scena, in particolare, mi è rimasta nel cuore, perché per me è proprio l’emblema della scrittura di Elizabeth Gaskell. Inizia infatti con uno dei suoi ineguagliabili ritratti autunnali: «L’aria sulle alture era così immobile che niente sembrava muoversi. Di quando in quando una foglia gialla fluttuava al suolo, staccatasi dall’albero non per un atto violento ma solo perché la sua vita aveva raggiunto il limite ed era finita. I boschi distanti e riparati splendevano d’arancio e cremisi, ma la loro gloria non era che il segno dell’anno che declinava verso la morte. Anche senza provare un dolore intimo, la sublime solennità della stagione lasciava traccia nella mente dell’uomo, la quietava, e la incoraggiava a placide riflessioni» e prosegue con l’incontro dei due protagonisti accanto al fuoco, in cerca di reciproco conforto. Proprio del significato del fuoco come accentratore delle emozioni umane tratta l’ultimo capitolo del mio saggio Elizabeth Gaskell e la casa vittoriana.

29 settembre 2016

Sui passi di Elizabeth Gaskell

La targa appesa sul muro esterno
della casa di Chelsea in cui
Elizabeth Gaskell venne alla luce
il 29 settembre 1810
Duecentosei anni fa, in una casa di Chelsea, a Londra, veniva alla luce una bambina che avrebbe un giorno occupato un posto di tutto rilievo nella scena letteraria: Elizabeth Gaskell. Oggi possiamo festeggiare questa ricorrenza con l’esordio di un libro che è la biografia in italiano della scrittrice, Sui passi di Elizabeth Gaskell, pubblicato proprio in questi giorni dalla casa editrice Jo March (già “responsabile” di aver fatto conoscere l’autrice al grande pubblico, grazie alle prime edizioni italiane dei romanzi Nord e Sud, Gli innamorati di Sylvia e Mogli e figlie).
Sui passi di Elizabeth Gaskell è un intreccio di scritture: vi si narrano la vita personale e la carriera della scrittrice, ma è insieme anche il resoconto di una serie di viaggi in Europa, compiuti nell’arco di oltre due anni (2014-2016), alla ricerca dei luoghi più significativi dell’esistenza di Gaskell – significativi perché sono stati le sue case, oppure i paesaggi in cui ha trascorso le sue vacanze, incontrando spesso altri protagonisti del suo tempo (Charlotte Brontë, su tutti), e in generale i luoghi da cui ha preso ispirazione per i suoi libri.
In questa biografia, che è anche un po’ un diario di viaggio, compaiono numerose traduzioni inedite in italiano di brani dalle lettere di Elizabeth Gaskell; queste ci permettono di “sbirciare” un po’ nei suoi pensieri, nelle sue emozioni e nel costante e indefesso lavorio della sua mente, che le ha consentito di dare vita ai personaggi che abbiamo imparato ad amare.
C’è infine un altro genere di “racconto” presente in questo libro: il racconto visuale, offerto dalle fotografie originali dei luoghi gaskelliani che sono state raccolte nel corso del viaggio. Tra salotti e brughiere, tra onde del mare e tavoli da scrittura, tra panorami urbani e le scene fugaci di un grand tour, possiamo guardare dentro la vita di questa straordinaria narratrice, riuscendo forse a comprendere un po’ più in profondità la sua necessità di diventare un’artista, e di non smettere mai di creare nuove storie.

Sui passi di Elizabeth Gaskell
di Mara Barbuni
Città di Castello, Jo March 2016
Collana: Christopher Columbus
ISBN: 9788894142822
€ 15,00

2 settembre 2016

Il turismo inglese nella Svizzera dell'Ottocento

Non c'è lettura più estiva di un giallo o di un libro di viaggio. Nel corso dell'agosto appena concluso mi sono rituffata (come da tradizione) in qualche romanzo di Agatha Christie, ma soprattutto in un libro affascinantissimo, scritto da un autore inglese residente a Berna, intitolato Slow Train to Switzerland
In quest'opera Diccon Bewes racconta il proprio viaggio in treno su e giù per la Svizzera, seguendo lo stesso percorso compiuto da un gruppo di turisti inglesi nel 1863. Il libro, dunque, non è solo una guida di viaggio, che ci porta a conoscere i luoghi più affascinanti di questo stranissimo paese, descrivendone gli angoli più belli e più incredibili e raccontandoci la sua storia e le sue bizzarre tradizioni, ma è anche un interessante saggio sul fenomeno del turismo in età vittoriana. 
L'autore organizza il proprio giro della Svizzera seguendo passo dopo passo il diario di viaggio di Miss Jemima Morrell, brava disegnatrice, che nel 1863, quale membro del Junior United Alpine Club, partì per una vacanza di gruppo pianificata da Thomas Cook, il più celebre "agente di viaggio" del diciannovesimo secolo - l'uomo che cambiò le forme (e le conseguenze) del turismo in Europa. Il viaggio di quei coraggiosissimi, instancabili turisti durò tre settimane e toccò le città più amate e le vette più impervie della Svizzera: Ginevra, il Monte Bianco, Sion, Interlaken, le cascate Staubbach, il ghiacciaio di Grindelwald, il Monte Rigi, Lucerna. Il tutto con uno zaino sulle spalle, e - nel caso delle signore - con metri e metri di stoffa di abiti addosso: si trattava pur sempre di ladies vittoriane. Il Junior United Alpine Club percorse infiniti chilometri, in treno, a piedi o a dorso di un asinello, senza mai lasciarsi spaventare dalle salite, dai sentieri rocciosi, dal freddo o dalla mancanza di sonno. 
La prima pagina del diario di Miss
Jemima, corredato da illustrazioni
di sua mano e da cartoline acquistate
nei luoghi del suo passaggio.
Il libro è avvincente soprattutto quando racconta la storia delle ferrovie svizzere, che qui sono giustamente una specie di mito della modernità, e delle loro tratte più avveniristiche, come quella che porta in cima alla Jungfrau (la stazione più alta d'Europa, a 3454 metri). Curiosissimi poi i resoconti dei "consigli di viaggio" della guida Murray (quella seguita da Miss Jemima), che raccomandava di tenere nello zaino «3 o 4 camicie, calze, pantofole, soprabito di alpaca, un gilè leggero, l'occorrente per cambiarsi, etc. - il tutto senza eccedere le 12 o 14 libbre». Il resto del bagaglio veniva spedito, sotto forma di bauli, verso gli alberghi che i viaggiatori avrebbero di volta in volta raggiunto dopo tre o quattro giorni di cammino. 
Gli anglo-americani fecero della Svizzera una sorta di "parco dei divertimenti" e vi accorsero in massa, dando una spinta impressionante all'economia del paese, nel quale iniziarono a sorgere a una velocità incredibile hotel, negozi, punti di ristoro, e, appunto, linee ferroviarie. La lista degli scrittori e degli artisti di lingua inglese che fecero tappa qui nel diciottesimo e diciannovesimo secolo, infatti, sembra non finire mai: solo per fare qualche nome, Mary Wollstonecraft, gli Shelley, Byron, Turner, Dickens, Twain, Gaskell, James, Ruskin, G. Eliot, Christina Rossetti, Pater, Hardy, Browning, Conrad. 
Quando sono arrivata in Svizzera e ho cominciato a girare un po', mi è subito sembrato di respirare una sorta di "aria inglese"... grazie a questo libro ho capito perché.

28 agosto 2016

Le cascate di Sherlock Holmes

«Spetta a me raccontare per la prima volta ciò che davvero avvenne tra il Professor Moriarty e Mr. Sherlock Holmes» scrive il dottor Watson all’inizio di The Final Problem (L’ultima avventura), il racconto che avrebbe dovuto chiudere la serie delle storie del celebre investigatore. In questo scritto Watson ci narra l’«incantevole» viaggio compiuto insieme all’amico in Svizzera, tra il verde della primavera incipiente e il «bianco verginale» delle vette; i due si spostano da Ginevra a Interlaken fino ad arrivare alla cittadina di Meiringen, scendendo all’albergo Englischer Hof (che oggi si chiama ParkHotel Du Sauvage).
Due giorni fa sono stata proprio a Meiringen (che è anche la città natale della meringa…), ai piedi delle montagne da cui precipitano le Cascate Reichenbach. Scrive Conan Doyle/Watson: «Ci fu caldamente raccomandato di non oltrepassare le cascate di Reichenbach che sono circa a metà dell’ascesa senza fare un piccolo giro per vederle. È veramente un posto pauroso. Il torrente gonfio per il disgelo si tuffa in un abisso terribile da cui si alza la schiuma come il fumo da una casa in fiamme. Il passaggio in cui il fiume si getta è un immenso abisso costeggiato da rocce lucenti, nere come carbone, e finisce in un baratro spumeggiante di incalcolabile profondità che, gonfia, riversa la corrente in alto sopra di sé. La lunga scia di acqua verde che muggisce continuamente e la pesante mutevole cortina di schiuma che viene verso l’alto fanno venire il capogiro con il loro continuo rumore e frastuono. Stavamo vicino all’orlo del precipizio osservando il luccichio dell’acqua che si infrangeva giù sotto di noi contro le rocce nere e ascoltando l’urlo quasi umano che ci raggiungeva insieme alla schiuma dall’abisso. Il sentiero è stato tagliato intorno alla cascata in modo da permettere una vista completa, ma improvvisamente finisce e il viaggiatore deve ritornare indietro». 
Foto: ©IpsaLegit2016

Le cascate si raggiungono prima con una funicolare rossa fiammante, in stile old-fashioned con gli interni in legno, e poi su per una salita piuttosto impervia che raggiunge un ponticello appeso giusto sopra il salto; da lì si scende ancora una volta e si raggiunge il punto dove Sherlock e Moriarty cadono nel precipizio. Qui si trova una targa dedicata all’investigatore, e persino una ghirlanda di fiori con i messaggi di estremo saluto dei suoi amici (Watson, i Lestrade,…). Watson raggiunge questo punto dopo essere stato ingannevolmente richiamato a Meiringen dagli uomini di Moriarty: qui trova il portasigarette di Holmes e un messaggio vergato dalla sua mano. Scrive: «Dall’esame fatto dagli esperti risulta quasi con sicurezza che la lotta corpo a corpo tra i due uomini finì, come non poteva che finire in tale situazione, nel gettarli nell’abisso stretti l’uno all’altro. Qualsiasi tentativo di recuperare le salme fu impossibile e là, in quel terribile pozzo di acqua vorticosa e di schiuma ribollente, giaceranno per sempre il più pericoloso criminale e il più insigne campione della legge della loro generazione». 
In paese, nella cripta di quella che era la chiesa anglicana, in Conan Doyle Place, si trova il Museo di Sherlock Holmes, in cui si ammira la ricostruzione esatta del salotto del 221b Baker Street (i dettagli obbediscono pedissequamente alla descrizione letteraria e i mobili, tutti di antiquariato, risalgono al tempo dei fatti narrati). Il Museo è stato aperto nel 1991, sotto il patronato  della Sherlock Holmes Society of London e di Dame Jean Conan Doyle. Benché sia un personaggio inventato, Holmes è stato nominato cittadino onorario di Meiringen.
 
Foto: ©IpsaLegit2016


14 agosto 2016

The Duchess of Bloomsbury Street

Poche settimane fa è stato pubblicato in formato digitale The Duchess of Bloomsbury Street di Helene Hanff. Per leggere e “comprendere” questo libro è obbligatorio conoscere 84, Charing Cross Road, che raccoglie la corrispondenza epistolare della scrittrice con Frank Doel, il libraio inglese che le spedì a New York ogni sorta di volume usato, formando con lei una lunga e affezionata amicizia: di questo libro, che è entrato nell’empireo dei miei “indimenticabili”, ho parlato qui
The Duchess of Bloomsbury Street è il diario di viaggio di Helene a Londra. Nel 1973 la scrittrice fu invitata in Inghilterra per un tour promozionale del fortunatissimo 84, Charing Cross Road e realizzò il sogno di vedere la città – un sogno coltivato per anni, ma mai realizzato per ragioni economiche – ma non di incontrare Frank, ormai deceduto. I momenti supremi di questo viaggio, compiuto sperando in pranzi e cene offerti da editori e fan, sono l’incontro con la moglie e la figlia di Frank, l’ingresso al Claridges («dove pranzano tutti i personaggi di Noël Coward»), la contemplazione di rose in piena fioritura in ogni giardino, la visita al pub frequentato da Shakespeare e al punto – allora vuoto – dove sorgeva il Globe. 
L’aspetto davvero incantevole di The Duchess of Bloomsbury Street, infatti, è il racconto dell’esperienza di una “prima visita” a Londra. La maggior parte delle persone che frequentano Ipsa Legit sanno bene di cosa si tratta: è quel senso imponderabile di essere “caduti dentro” le pagine di un libro, accompagnato dalla consapevolezza che la città è e sarà per noi per sempre unica, perché la sua bellezza reale è addirittura accentuata, come trasfigurata, dalla bellezza dei nostri sogni, e di desideri nutriti talmente a lungo da aver messo radici solide nel nostro cuore. Il mio ricordo più forte del mio primo viaggio a Londra è il Poets’ Corner di Westminster Abbey: ma, come dice la scrittrice, è l’atmosfera in cui ti immergi appena messi i piedi a terra che rende la tua presenza in città del tutto magica. 
Scrive Hanff (trad. mia): «Tirai le tende… e finché vivrò non dimenticherò mai più quel momento. Avevo di fronte, dall’altra parte della strada, una linda fila di strette case di mattoni, con i gradini di pietra bianca. Sono normalissime case del Settecento e dell’Ottocento – ma quando le vidi mi resi conto di trovarmi a Londra. […] Tremavo. Non ero mai stata così felice. Da tutta la vita volevo vedere Londra. Andavo al cinema a vedere film inglesi solo per poter osservare case come quelle. […] Talvolta, a casa, la sera, leggendo una descrizione di Londra firmata da Hazlitt o da Leigh Hunt, mi era capitato di mettere giù il libro di colpo, sommersa da un’ondata di desiderio che era come nostalgia di casa
Questa dichiarazione d’amore, nella quale è tanto facile immedesimarsi, è commovente.


10 agosto 2016

Una settimana, tre libri

Negli ultimi giorni, con la complicità di un fine settimana tranquillo trascorso in terrazza e le serate freddine, ho letto tre libri. Ho iniziato con Il tempo dell’attesa, il secondo atto della “Saga dei Cazalet” di Elizabeth Jane Howard (Fazi Editore). Benché la scrittura sia sempre eccellente, devo dire che questo secondo capitolo non mi è sembrato all’altezza del precedente, che mi aveva affascinato molto di più: forse, in questo caso, le dinamiche familiari già note e la minore rilevanza negli scambi fra i personaggi hanno pesato un po’ sull’evoluzione della scrittura. Narrativamente parlando, la figura di Louise impegnata a calcare le scene – episodi a quanto pare autobiografici – mi è parsa meno interessante, mentre si è confermato nella sua profondità e complessità il personaggio di Clary, la ragazzina in attesa del padre disperso durante la ritirata di Dunkirk. 
Sempre restando in tema di seconda guerra mondiale, vale davvero la pena di dedicare un’ora o due al racconto di Katherine Kressman Taylor Destinatario sconosciuto (Rizzoli). Questo breve scritto, che risale al 1938 ma è diventato famoso solo nel 1999 (in traduzione francese), riporta la corrispondenza epistolare tra due amici di lunga data comproprietari di una galleria d’arte di San Francisco: il primo, ebreo, vive in America; il secondo è rimasto a Monaco e si dimostra sempre più accecato dalle follie megalomani di Hitler. Lo sviluppo del rapporto tra i due è a un tempo travolgente e agghiacciante, fino al lapidario colpo di scena finale. 
Hotel du Lac (Neri Pozza) è il romanzo di Anita Brookner premiato con il Booker Prize nel 1984. È la storia della scrittrice Edith Hope, che a seguito di uno scandalo viene invitata dagli amici ad autoesiliarsi in un hotel sul Lago di Ginevra. Il racconto degli incontri di Edith ricorda l’ironia di Elizabeth von Arnim, mentre il processo di autoanalisi compiuto dalla protagonista potrebbe far pensare alla scrittura di Edith Wharton. Sottile e significativo è il ritratto che la donna dà di se stessa: «parecchi hanno rilevato la mia rassomiglianza fisica con Virginia Woolf; possiedo una casa, pago le tasse, sono una buona cuoca e consegno i miei dattiloscritti molto prima della scadenza; firmo tutto quello che mi viene sottoposto, non telefono mai al mio editore e non mi vanto affatto del mio particolare modo di scrivere, anche se mi rendo conto che vende piuttosto bene» (trad. it. di Marco Papi).

31 luglio 2016

Letteratura sul lago

Quando viene la bella stagione cerco sempre di approfittare di dove mi trovo (e negli ultimi tre anni i “miei” luoghi sono cambiati spesso!) per andare alla ricerca di destinazioni legate alle opere letterarie. Ieri sono rientrata da un brevissimo viaggio – in treno e in battello – sul lago di Ginevra (o Lac Léman), che, oltre a offrire bellissime aperture di acqua azzurra incorniciate dai fiori, garantisce tanti spunti di genere “libresco”. 
Castello di Chillon - ©IpsaLegit2016
La prima tappa è stata il Castello di Chillon, che quest’anno, in occasione del bicentenario della famosa estate del 1816 (“l’anno senza estate” di cui ho parlato qui) ha allestito una straordinaria esposizione dedicata a Lord Byron. Il 27 maggio di quell’anno Byron e il suo medico, John Polidori, incontrarono Percy Shelley e la sua compagna e futura moglie Mary: Byron aveva preso in affitto Villa Diodata a Cologny, vicino a Ginevra, mentre gli Shelley abitavano in una casa lì vicino. Il clima freddo e oscuro di quell’estate, e in particolare la tempesta della notte del 13 giugno, ispirarono la composizione di Frankenstein di Mary e il Canto III di Childe Harold di Byron. Il 22 giugno Byron visitò il Castello di Chillon; la vista delle prigioni e la storia della reclusione del monaco Bonivard tra il 1532 e il 1536 influirono sulla sua vena poetica, inducendolo a comporre The Prisoner of Chillon, un poemetto edito da John Murray che ebbe un successo di pubblico travolgente, consegnando all’immortalità la fama del castello – che da allora divenne una tappa obbligata del classico Grand Tour (è anche il protagonista di un dipinto di Turner). 


La visita al castello richiede più di due ore di vagabondaggio, che sale e scende su diversi piani – dalle segrete fino alla cima della torre, da cui si ammira il blu intenso del lago. L’esposizione (che chiude il 21 agosto 2016) raccoglie tante informazioni sul celebre viaggio svizzero di Byron, oltre a suggestive edizioni delle sue opere, sue pagine manoscritte originali e il registro del 1816 per il permesso di soggiorno della città di Ginevra che porta il nome di Percy Shelley. Non mancano i molteplici riferimenti letterari al Castello stesso, che compare in tantissime opere di autori inglesi e americani del diciannovesimo secolo: oltre ai Romantici, Fenimore Cooper, Dickens, Beecher Stowe, Hawthorne, Ruskin, Twain, James e Fitzgerald. 
Sul lago di Ginevra - ©IpsaLegit2016
Uscita dal castello, ho proseguito a piedi fino alla cittadina di Montreux: da lì, sul battello, sono ritornata a Losanna, da dove ero partita. In mezzo al lago, girando lo sguardo intorno, non ho potuto non pensare al capitolo 41 di Piccole donne crescono, quando Laurie chiede a Amy di sposarlo: «Erano fuori in barca dal mattino; dalla nebbiosa Saint-Gingolph alla soleggiata Montreux, con le Alpi della Savoia da un lato e il San Bernardo e il Dent du Midi dall’altro. Nella valle, la vista della graziosa Vevay e Losanna sulle colline laggiù in fondo; un cielo di un azzurro terso sulle loro teste e il lago ancora più azzurro sotto di loro, punteggiato di barchette pittoresche che sembravano gabbiani dalle ali bianche. Avevano parlato di Bonnivard passando da Chillon, di Rousseau alzando lo sguardo a Clarens dove egli scrisse la sua Eloisa. [...] Poi smisero entrambi di remare e, senza volerlo, aggiunsero un delizioso quadretto di amore e di felicità alle immagini riflesse nell’acqua che si dissolvevano.» Il viaggio si è concluso con una passeggiata a Ginevra, a cui ho dedicato un post della scorsa primavera; si trova qui
Buona lettura e buone vacanze! 

12 luglio 2016

L'autobiografia di Agatha Christie

Le biografie dei grandi autori della letteratura mi incuriosiscono sempre. Non perché mi interessino le parentele o le vicende familiari (a meno che nell’albero genealogico non compaiano altri nomi illustri), ma perché – a dispetto delle teorie sulla “morte dell’autore” – credo che in un’opera biografica si possano in qualche modo percepire le motivazioni che hanno indotto un autore a scrivere una determinata cosa. O a non scriverla affatto. 
Un “sottogenere” particolarmente avvincente sono le autobiografie, che sono di solito dei volumi ponderosi, e che per tutto il loro procedere non mancano di destare in noi delle domande ben precise: l’autore sta dicendo la verità? queste memorie sono del tutto autentiche o sono filtrate dalla sua immaginazione? e se subiscono una flessione verso la fiction, lo fanno perché anche i ricordi dello scrittore sono stati involontariamente influenzati dalla sua natura creativa oppure perché l’io narrante ha deliberatamente scelto di raccontarci una verità parziale? 
Queste domande inseguono il lettore per tutto lo sviluppo di La mia vita, l’autobiografia di Agatha Christie (Mondadori, trad. it. di M.G. Castagnone). Nella Prefazione e nell’Epilogo la scrittrice ci fornisce i termini cronologici della composizione, iniziata nel 1950 nella casetta presso gli scavi di Nimrud, in Iraq – dove Agatha viveva con il secondo marito, l’archeologo Max Mallowan –, e terminata nel 1965 a Wallingford, nel Berkshire. È evidente da questo e da tanti altri elementi del testo che l’autrice ha intenzione di mantenere uno stretto controllo sulla narrazione, portando noi lettori esattamente dove lei desidera condurci – senza nessuna spiacevole deviazione. «Ho ricordato quel che volevo ricordare», afferma; e ancora: «ciò che desidero è immergere la mano nel sacchetto dei ricordi ed estrarla con una manciata» (evidentemente accantonandone molti altri). È opportuno, dunque, leggere questa autobiografia non come una “confessione” ma come l’ennesimo dei suoi coinvolgentissimi libri, ricco di avvenimenti, di colori, di ironia, di persone, con un lieve tocco di nostalgia per la limpida gioia dei primi anni e con la chiara volontà di sorvolare sulle sofferenze più acute della sua esistenza. 
I capitoli più belli sono quelli dedicati all’infanzia e alla prima adolescenza. I ricordi di Ashfield, la casa natale a Torquay (Cornovaglia), sono pieni di tenerezza, e Agatha ci fa camminare insieme alla “lei” bambina fra i suoi giocattoli, nell’aula delle lezioni con la sua affezionata bambinaia, nella cucina con l’instancabile cuoca che preparava focaccine e cioccolata calda, nel bellissimo giardino con «il leccio, il cedro e la Wellingtonia» dove era solita inventare storie, incessantemente borbottando a bassa voce nell’atto di crearle e di raccontarle a se stessa (identica procedura che avrebbe adottato in futuro con i suoi romanzi). Tra fuggevoli memorie dei grandi personaggi che passavano per casa (Henry James, Rudyard Kipling), fulmini di colori e di profumi (i ranuncoli, il tiglio), giostre, amicizie infantili, letture di Sherlock Holmes, la stagione del debutto, spettacoli teatrali, cibi di tutti i generi, nuvole di seta, crêpe de Chine e taffetà, si arriva al 1914, con la guerra e l’inizio della consapevolezza del voler scrivere romanzi. 
A questo punto comincia un’altra fase della vita di Agatha: l’età adulta, che se già per definizione comporta un mutamento radicale nel nostro modo di guardare e di intendere la vita, nel suo caso significò il risveglio da un sogno bellissimo. Per Agatha diventare grande volle dire lavorare nelle infermerie traboccanti di soldati feriti, un amore sempre complicato e un po’ inquietante con il marito Archie Christie, le difficoltà economiche. I brani più interessanti di questa parte sono quelli che riguardano il lavoro della scrittura – la gestazione degli intrecci, la creazione dei personaggi di Poirot, Hastings, Tommy e Tuppence e Miss Marple, la compilazione dei quaderni di appunti, le vicende editoriali, i libri scritti sotto pseudonimo, lo “scandalo” di Roger Ackroyd. Sono gli anni del giro intorno al mondo (raccontato nei dettagli in un altro libro di recente pubblicazione di cui ho parlato qui), dell’infanzia della figlia Rosalind e del penoso abisso in cui la scrittrice precipitò nel 1926, con la morte della madre, la separazione da Archie e l’episodio, mai pienamente spiegato, degli undici giorni della sua scomparsa – alla quale Agatha non fa riferimento alcuno.
L’ultima fase è quella segnata dai bombardamenti della Seconda Guerra Mondiale, dell’affermazione come scrittrice professionista, del secondo matrimonio, della vecchiaia. Qui la dominante sembra essere la malinconia, anche se la “donna” provata dai dolori dell’esistenza talvolta sparisce dietro l’incontenibile forza della fantasia della “scrittrice”: «Penso che la gratitudine che si prova nei confronti della vita non sia mai tanto forte e vitale come in questi anni. Ha la concretezza e l’intensità dei sogni, e a me sognare piace ancora molto». Il “senso della vita” di Agatha Christie è forse proprio questo, ed è una convinzione che sembra davvero sincera, e perciò confortante: «Mi piace vivere. È capitato anche a me di essere in balia di una profonda disperazione, di un’infelicità acuta, o di un terribile dolore, eppure so con certezza pressoché assoluta che essere vivi è una cosa straordinaria».


Consiglio la visione dello splendido documentario in inglese (ITV) «Perspectives. The Mystery of Agatha Christie», disponibile su YouTube cliccando qui. È il racconto della vita di Agatha attraverso i suoi luoghi, le sue lettere, i suoi diari e le fotografie, guidato da David Suchet, l'attore che ha interpretato l'investigatore belga nella lunga serie televisiva «Agatha Christie's Poirot». Da vedere anche «Agatha Christie's Garden», disponibile qui.

28 giugno 2016

I fratellastri

I fratellastri di Elizabeth Gaskell fu pubblicato nel 1859 nella raccolta in due volumi Round the Sofa, che conteneva anche My Lady Ludlow e altre storie. Questo racconto è l’ennesima dimostrazione del fatto che il talento dell’autrice per la narrazione breve è davvero fuori dal comune. Sia nelle storie «gotiche» (tra cui spiccano Storia della vecchia nutrice, Il destino dei Griffith oppure La donna grigia) sia in quelle di contenuto più «terreno», in poche pagine Gaskell riesce a evocare un mondo intero, fatto di scenografie perfettamente delineate e di personaggi che, benché tratteggiati con poche pennellate, sono pieni di carattere e dotati di un’identità inequivocabile. 
Nei suoi racconti la scrittrice sa dominare il trascorrere del tempo con grande maestria: nello spazio di una manciata di righe possono passare pochi minuti oppure un’intera vita, ma la lettura non è mai straniante, e noi ci sentiamo sempre accompagnati con garbo nella comprensione degli eventi narrati. Quando leggiamo queste storie ci sembra di essere uno dei fortunatissimi «ascoltatori» dei racconti di Gaskell: uno di quei suoi tanti affezionati amici che spesso avevano l’opportunità di sedere con lei intorno al caminetto (o «intorno al divano», come suggerisce il titolo della raccolta del 1859) e di sentire le narrazioni prendere vita dalla sua stessa voce. Come le scrisse in una lettera, sempre del 1859, William Wetmore Story (che la ospitò a Roma): «Permetteteci di rivedere il vostro viso e di risentire la vostra voce... Non volete raccontarci un’altra delle vostre affascinanti storie – e regalarci ancora il vivido ritratto di un personaggio?» 
Le Edizioni Croce sembrano aver voluto accontentare questa richiesta, che è anche quella dei lettori italiani, con la pubblicazione di I fratellastri in un volumetto esile ma denso di significati. Alla bella e attenta traduzione di Salvatore Asaro (con il quale ho dialogato qui) si accompagna una mia Postfazione, dedicata al ruolo della natura in questa e in altre opere di Elizabeth Gaskell e alle reminiscenze che le collocano in una temperie chiaramente romantica (parlo di Romanticismo nel senso della corrente filosofica, letteraria, artistica e musicale). 
Accuratissima e davvero interessante è poi l’Introduzione di Michela Marroni, che partendo da una presentazione dei rapporti tra Gaskell e Dickens si inoltra nello studio della narrativa breve della scrittrice esaminando le sfumature delle sue figure «eroiche», la funzione del «caso» e del «destino», gli echi della tradizione popolare e le complesse reti semantiche di natura religiosa che non mancano mai nella scrittura di Gaskell, ma che spesso a noi lettori rischiano di sfuggire. Queste Introduzioni sono fondamentali, perché offrono uno spettro di comprensione del testo letterario così tanto più ampio da aumentare fortemente il nostro piacere di leggere. A dispetto (o forse proprio in virtù) della loro brevità, infatti, i racconti sono densi e infinitamente stratificati: ogni riga è come l’ingresso a un percorso di interpretazione che va sempre più in profondità, regalandoci esperienze di lettura che sono anche molto istruttive. I saggi introduttivi servono a farci da guida in questi percorsi: sono come lanterne che, quando camminiamo dentro una grotta, illuminano per noi le bellezze che si nascondono nelle cavità della terra. 
In I fratellastri possiamo ritrovare molti motivi tipici della scrittura gaskelliana. C’è una figura materna silenziosa, che nutre la propria sofferenza con l’amore riservato ai suoi figli e poi sparisce dalla storia (come avviene per la mamma di Molly, la madre di Sylvia, la signora Hamley, la signora Hale, ...). C’è il racconto complicato di un rapporto tra figli di genitori diversi (come in Mogli e figlie). C’è il tema dell’emarginazione, della solitudine e del vagabondaggio (come nell’ultima parte di Gli innamorati di Sylvia), spesso accompagnato all’idea del sacrificio e dell’espiazione. Ci sono i caratteristici indicatori della «fiaba» identificati nelle teorie narratologiche di Propp (come in Mogli e figlie e in tanti altri racconti). E poi c’è, come in ogni sua opera, un paesaggio che è una «creatura» vivente, e che grazie alla splendida scrittura di Gaskell prende quasi una forma tridimensionale sotto i nostri occhi: mentre leggiamo, il landscape si allarga verso le periferie, si allunga verso l’orizzonte, sale verso l’alto e ci mostra le colline, i dirupi, le cascate, e un immenso cielo dal quale piovono acqua o neve, che può acquietarsi in un tramonto, sul quale spuntano le stelle. Nella mia Postfazione ho voluto proprio esplorare il paesaggio della scrittura gaskelliana, esaminando le sue relazioni con l’emotività dei personaggi e cercando di «visualizzarlo», con l’aiuto di riferimenti alla pittura romantica di Constable, di Friedrich, ma soprattutto di J.M.W. Turner.

25 giugno 2016

Love & Friendship al cinema

Questa settimana ho potuto vedere al cinema Love & Friendship, un film diretto da Whit Stillman e tratto dal romanzo epistolare giovanile di Jane Austen Lady Susan (di cui ho scritto qui). Nella minuscola sala della mia piccola città ho trascorso l'ora e mezza del film in piacevole compagnia di altri due spettatori (una splendida coppia sulla settantina abbondante) che come me sembrano aver apprezzato l'esperienza di vedere un film in inglese con i doppi sottotitoli, in francese e tedesco (dopotutto siamo in Svizzera!) 
Il film, oltretutto, è davvero molto ben fatto. In primo luogo rispetta lo spirito epistolare della storia scritta da Austen, perché i minuti sono divorati dai dialoghi e dai lunghissimi monologhi che riproducono, talvolta testualmente, le lettere del libro. Il regista manifesta le proprie scelte stilistiche sin dall’inizio, quando i luoghi e i personaggi sono presentati allo spettatore con scene statiche, a tutto schermo, un po’ scurite sui margini (con effetto «vignettato»), che ricordano subito delle miniature settecentesche. 
Il film è decisamente «miniaturale» e decisamente settecentesco. Oltre che dalla tendenza alla fissità delle immagini e da musiche che conservano certe risonanze shakespeariane è infatti contraddistinto dall’ironia. Anzi, direi che l’ironia lo pervade, riuscendo a restituirci la natura dissacrante e sarcastica della scrittura di Jane Austen. Tom Bennett, in particolare, regala al personaggio di Sir James Martin una comicità che ha strappato qualche sonora risata sia a me che ai miei due compagni di «visione» e i siparietti tra Lady e Lord De Courcy (interpretato da James Fleet, già John Dashwood in Sense and Sensibility del 1995) sono spassosissimi. Confermano l’identità settecentesca della storia le scelte dei costumi (gli abiti delle signore sono precedenti a quello stile Impero al quale siamo stati abituati a vederli finora), tra cui spiccano due notevoli esemplari in tessuto a righe, e il ritratto di un Sensibility man («uomo della Sensibilità»), rappresentato dagli occhi lucidi di lacrime di Reginald de Courcy. 
Le scenografie sono suggestive, molto attente a mostrare soggiorni, ingressi, stanze da letto, salottini privati che abbondano di oggetti come libri, candele, ritratti. Un aspetto specifico dell’uso della cinepresa ad avermi affascinata è, in particolare, la presenza ricorrente di «soglie»: porte, finestre e cancelli ritornano continuamente. Un paio di scene esterne, che sono volutamente limitate dalle «soglie» o «confini» del parco di Churchill, sono evidenti citazioni da Sense and Sensibility del 1995; le scene interne, invece, sono spesso rappresentate, in modo molto intelligente e originale, in secondo piano rispetto alla cornice offerta da una porta socchiusa. Questa scelta stilistica mi ha da una parte ricordato che le «cornici» (di natura sociale, economica, culturale e persino biografica) di un testo non devono mai essere trascurate, e dall’altra costruisce un efficacissimo senso di eavesdropping (la parola inglese per «origliare»), che sottolinea la portata trasgressiva della storia rappresentata, fedele all'originale. 
Come scrive Diego Saglia (Leggere Austen, Carocci 2016, pp. 97-99), infatti, «[Lady Susan] è la controparte femminile del personaggio di Lovelace [...] [sulla quale] Austen ci impedisce di formulare un giudizio netto. […] l’autrice ci porta a preferire la voce franca, diretta e spregiudicata della protagonista e la sua visione egoista e corrotta del mondo. […] [Lady Susan] non si pente delle sue macchinazioni, né si ravvede e si vota alla virtù. Ma non viene neppure punita dalla giustizia narrativa dell’autrice». 
Una nota di merito conclusiva va a Kate Beckinsale, che da giovanissima e candida Emma (miniserie ITV, 1996) si è saputa tramutare in una Lady Susan enigmatica e credibilissima – con un accento British davvero irresistibile. Potete «assaggiare» il fascino suo e dell'intero film già nel trailer:
https://www.youtube.com/watch?v=8MaSK3POHI0

Questo post è stato pubblicato, con qualche variazione, anche su www.jasit.it

19 giugno 2016

Raggi di luna

Stamattina ho chiuso l’ultima pagina di Raggi di luna di Edith Wharton (Bollati Boringhieri 2015, trad. it. di M. Biondi). The Glimpses of the Moon (titolo tratto da un verso dell’Amleto) uscì nell’agosto del 1922, un anno dopo che l’autrice si era guadagnata il Premio Pulitzer per il suo capolavoro, L’età dell’innocenza; è un libro ancora una volta basato sui temi dell’amore, del matrimonio e delle difficoltà di proteggere queste due fragili e preziose esperienze della vita umana da una società dominata dalla falsità, dalle convenienze e dalla necessità costante di accumulare e di spendere denaro («sapeva quanto è fragile il filo a cui sta appeso chi non ha un centesimo»). 
Nella sua autobiografia, A Backward Glance (pubblicata in italiano con il titolo Uno sguardo indietro), Wharton parla di Raggi di luna in riferimento al contesto del primo dopoguerra. Di questo periodo scrive: «La morte e il lutto erano come tenebre sulle case dei miei amici e io soffrivo con loro, e fondevo il mio cordoglio privato con il dolore di tutti», nel patire «il crescente senso di spreco e di perdita dovuto agli irreparabili anni della guerra». Per questo Raggi di luna offre, secondo lei, «una via di fuga dai recenti, spaventosi anni». 
In effetti, questo romanzo, pur ricordando per molti versi – e soprattutto nella sua protagonista, Susy – il tragico La casa della gioia, appare più “leggero” di altre opere di Edith Wharton, essendo molto concentrato sull’intreccio amoroso piuttosto che sulla disamina, tipica di altri suoi libri, della complessa e stritolante meccanica sociale. Al momento della sua pubblicazione ebbe un grande successo di pubblico, ma la critica iniziò a intravvedere una certa lontananza della scrittura dell’autrice da quelle che stavano diventando le istanze rivoluzionarie della letteratura contemporanea, rappresentate da lavori come Terra desolata di T.S. Eliot o Ulisse di Joyce; è innegabile, tuttavia, che nella rappresentazione precisa della vita mondana dei personaggi di Raggi di luna, sembrano comparire motivi che si ritrovano anche in Il grande Gatsby (1923).

La grande bellezza di questo romanzo, come spesso avviene in Wharton, sta nella sua rievocazione del “sense of place”. I due protagonisti, Susy e Nick, da tipici espatriati americani, si spostano su e giù per l’Europa andando incontro a “raggi di luna” destinati a spiovere sempre su splendidi paesaggi, la maggior parte italiani. La loro storia coniugale inizia in una villa sul Lago di Como, le cui piccole onde si fanno «più ampie, riducendosi infine a una serica levigatezza, mentre alta sopra le montagne, in un cielo spolverato di stelle sempre più evanescenti, la luna stava passando dall’oro al bianco». Lasciata Como, i due si spostano, sempre squattrinati e sempre ospiti dell’interessata generosità altrui, nella cornice stregata di Venezia, dove il sole «entrava a fiotti attraverso le tende di vecchio broccato, e la sua rifrazione dalle increspature del canale tracciava un reticolo di scaglie dorate sul soffitto a volta» e, nel crepuscolo, la prua delle gondole «scivolava sopra il riflesso capovolto dei palazzi e nel profumo di giardini nascosti». Non può mancare, infine, una fotografia di Parigi, la tanto amata Parigi di Edith Wharton, con «il reticolo della città vecchia, le grandi volte grigie di St. Eustache, le vie gremite del Marais».

5 giugno 2016

Un posto perfetto

Stamattina, complice la quiete del terrazzo e un cielo misto tra il pervinca e il grigio con occasionali spruzzate di pioggia fresca, ho terminato la mia quarta lettura di Penelope Lively, il romanzo Un posto perfetto (Family Album, 2009) edito da Guanda con traduzione di C. Piazzetta. 
È la storia di una famiglia inglese molto numerosa che vive ad Allersmead, una grande casa edoardiana pregna di ricordi. Mentre la madre Allison, archetipo quasi mitico della fecondità, si sforza di mantenere il marito, i figli e la "ragazza alla pari" - che non è più una ragazza ma non li ha mai lasciati - legati in un vincolo insolubile, gli altri personaggi si sforzano di sfuggire al suo abbraccio, talvolta soffocante, e di costruirsi una vita indipendente. 
Come sempre, la scrittura limpida e «dalla grande profondità emotiva» (The Times) di Penelope Lively dimostra un incredibile talento per la narrazione. Gli eventi sono dominati da una penna sicura, perfettamente consapevole di tutte le fasi dell'evoluzione della storia, momento per momento; i livelli del racconto, che si intersecano fluidamente tra una voce narrante e l'altra e da un piano cronologico all'altro, costruiscono con grazia ed eleganza una storia solida e convincente, che gira intorno a un perturbante segreto familiare eppure, contemporaneamente, sa intraprendere numerose altre vie periferiche di analisi della coscienza della specie umana. 
Come spesso accade nella scrittura inglese, lo spazio domestico ha una grande importanza, non solo come teatro degli avvenimenti, ma anche come ricettacolo di atmosfere, di retaggi del passato e di premesse del futuro: «è l'intelaiatura, ciò che permane quando tutta quell'evanescente materia umana è transitata e passata. È un tripudio di impassibili mattoni rossi, piastrelle nere e bianche, boiserie di quercia, vetrata con gigli e acanti. [...] La casa sente tutto. La casa sa.» 
Se Allison vede Allersmead come il luogo naturale dell'espressione dei suoi sogni (forse un po' ammaccati), per i figli quella casa è il luogo dal quale fuggire, pur sapendo che non se ne distaccheranno mai veramente. Alla fine della storia una di loro, Gina, riflette sulla natura più profonda, umana, della casa, risentendo il «profumo lungo un secolo di pane tostato e di arrosto. [...] Gina può ancora distinguere i loro odori... il pranzo della domenica, il coq au vin, lo spezzatino di agnello con patate, la pasta al forno, il crumble di mele. E gli odori la riportano a una Allersmead più intima, alla Allersmead della mente, a una moltitudine di attimi privati che risalgono la lunga e buia corrente degli anni, lo strano assortimento di immagini fugaci che è noto come memoria».

Altri post su Penelope Lively:
http://ipsalegit.blogspot.ch/2013/08/l-in-cui-tutto-cambio.html
http://ipsalegit.blogspot.ch/2015/08/amori-imprevisti-di-un-rispettabile.html

1 giugno 2016

Tempo immemorabile

Rachel Field
Il mese di maggio appena finito è stato brutto e difficile. Sono stata un po’ aiutata a superarlo da un romanzo molto bello e intonato al momento, fatto della storia di un grande amore ma soprattutto del racconto della formazione (o forse, meglio, della metamorfosi) di un’identità. Il libro è Time Out of Mind (1935) di Rachel Field, che si trova anche in edizione italiana con il titolo Tempo immemorabile (Elliot 2014, trad. it. di D. Vallesi). L’americana Rachel Field, autrice di fiction e di poesia, divenne celebre per la sua letteratura per l’infanzia, ma dai suoi libri “da grandi” furono tratti anche dei film: Time Out of Mind, in particolare, fu trasposto su pellicola nel 1947. 
La storia si dipana lungo il corso di un paio di decenni, alla fine del diciannovesimo secolo. La protagonista e io narrante, Kate, è la figlia di una domestica che vive nella residenza dei Fortune, facoltosa famiglia del Maine le cui ricchezze provengono dalla costruzione di imbarcazioni e di velieri. Benché di bassa estrazione sociale, Kate cresce a stretto contatto con i figli del maggiore Fortune, Nathaniel e Clarissa, e il legame che instaura con loro perseguiterà la sua esistenza fino al giorno in cui, da anziana, deciderà di mettere su carta i suoi ricordi. È un legame di amicizia, di amore, di interdipendenza, che dalle gioie della prima fanciullezza passa a ingenerare sentimenti di passione sfrenata (a tratti sembra di rileggere Cime tempestose) e di doloroso straniamento; a causa del vincolo che la tiene legata ai Fortune, Kate finisce per non appartenere più a niente e a nessuno: né al mondo in cui è nata e alla gente che lo abita (la popolazione più umile del villaggio), né, naturalmente, all’alta società di cui fanno parte Nathaniel e Clarissa. 
La scrittura è molto bella, ricca di musicalità disparate e di una forte capacità di evocazione visiva. Nella prima parte il protagonista è il mare: la sua potenza appare sempre all’orizzonte e la scena del varo del veliero sventurato, il Rainbow, è indimenticabile per i suoi richiami sonori, che ci riecheggiano nelle orecchie per tutto il resto del libro, e per la densità dei suoi significati, intimamente connessi al senso del destino. Seguono intensissime scene naturali, in cui risplendono fioriture quasi incantate, immagini di gelate e di tempeste, e richiami al valore dell’arte (la musica e la pittura in particolare) nella vita dell’essere umano.
Acute e commoventi sono le riflessioni della narratrice sul valore del Tempo nella nostra vita. Simboleggiato dalla presenza ricorrente di un orologio a pendolo francese, «marmoreo e dorato», appartenuto prima ai Fortune e poi alla stessa Kate, il Tempo diventa in questo libro un’entità quasi concreta, che si manifesta come un meccanismo ineluttabile, assumendo di volta in volta le forme delle stagioni in mutamento e dei loro frutti (fragole e mele hanno un significato importantissimo); degli spartiti musicali su cui Nathaniel perde la ragione; della scomparsa del paesaggio per l’avvento del progresso; e infine dei cambiamenti che intervengono sul corpo degli uomini a causa dell’età e del dolore. Voltando una pagina dopo l’altra, assistiamo alla trasformazione quasi mitica, quasi mistica, di Kate, da essere umano membro di una comunità a elemento della natura, condannato alla solitudine e all’isolamento, ma destinato a quella impalpabile serenità che deriva dall’aver trovato il proprio posto nell’ondivaga dimensione del mondo dentro lo spazio. «Le persone possono abbandonarti. Muoiono, partono, si staccano da te con parole violente: ma la terra, gli alberi, le mura protettrici e ospitali non ti tradiscono mai in quel modo. […] Andai nel frutteto un tardo pomeriggio di maggio, e vi rimasi fino a quando i miei capelli e le mie spalle furono tutti bianchi di una pioggia di petali. Il ronzio di migliaia di api sospese sui tremuli calici rosei dei fiori pareva il fruscio di una corrente che fluisse a perdersi nel mare, tra gli scogli lontani. C’era qualcosa di spasmodico, di fuori dal tempo, in quella pulsazione occulta di vita che mi stordiva e mi dava le vertigini. […] Avevo sempre saputo che, per ogni mela destinata a crescere e a maturare, centinaia di fiori cadevano e si sperdevano ai venti. Ma quel giorno lo constatai con una specie di panico, perché sapevo che anche agli esseri umani può toccare la stessa sorte che ai meli di maggio».

23 maggio 2016

I diari di Dorothy Wordsworth

Di solito non faccio caso al supporto di cui mi servo per godermi un’opera di scrittura o di letteratura: leggo volentieri sia i volumi di carta che gli ebook, senza pormi troppi problemi. La scorsa settimana, però, è arrivato un libro la cui forma contribuisce al valore della sostanza. 


Si tratta della recentissima edizione The Folio Society dei Diari di Grasmere di Dorothy Wordsworth – un’opera poco conosciuta rispetto alle poesie del più illustre fratello William, ma nella quale si possono trovare le stesse intuizioni, gli stessi colori e profumi, e la stessa capacità di evocare nel ricordo gli anni “profondi” (per gioie, sofferenze ed esperienza artistica) trascorsi nel Lake District. In questi diari Dorothy ci restituisce un ritratto intensamente umano del mondo che ha condiviso con William, sua moglie Mary e Coleridge, in una danza di parole, di sensazioni, di immagini e di memorie cui l’edizione della Folio Society rende omaggio con una copertina dai caratteri dorati, una sovraccoperta in carta velina opaca, le pagine in color avorio, l’introduzione di Lucy Newlyn e le bellissime illustrazioni (in acquerello a colori e in bianco e nero). 
Dorothy, separata sin da piccola dalla famiglia, crebbe innamorandosi dei libri (Cowper, Goldsmith, Burns, Shakespeare, Chaucer, Gray) e divenendo esperta dell’arte del cucito (nel Dove Cottage, a Grasmere, dove i Wordsworth vissero dal 1799 al 1808, è possibile ammirare il suo astuccio del cucito, riprodotto nella cartolina della fotografia in alto). 
Iniziò a scrivere quelli che sarebbero stati pubblicati, dopo la sua morte, come Diari di Grasmere, nel 1800: in queste pagine Dorothy raccolse impressioni della natura circostante – compreso l’episodio dell’incontro con i narcisi che William avrebbe celebrato nella sua “I Wandered Lonely as a Cloud” –, i resoconti del lavoro di scrittura del fratello, la storia del suo giardino, la depressione di Coleridge che non riusciva a concludere Christabel, il variare delle stagioni, le abitudini domestiche. Il tutto è raccontato con un linguaggio da grande scrittrice, che assume forme mutevoli a seconda del momento che è oggetto del racconto stesso: a una dizione prosaica piana e fluida si contrappongono sorprendenti flash visuali, come “impressioni” in forma di parole. Tra frasi sciolte e melodiose come «the melancholy Pleasure of walking in a Grove or Wood while the yellow leaves are showering around me, is grateful to my mind beyond even the exhilarating charms of the budding trees, while Music echoes through the Grove» appaiono espressioni quasi moderniste, eliotiane, quali «The moonshine like herrings in the water». Grande è il valore del silenzio nelle sue rappresentazioni: «The sun shone bright and clear. A deep stillness in the thickest part of the wood, undisturbed except by the occasional dropping of the snow from the holly boughs» e suggestiva la sua capacità di muoversi tra una dimensione materiale e l’altra, senza soluzione di continuità: «the Crows […] looked like shapes of water passing over the green fields». 
Dove Cottage, Grasmere.
Foto di Mara Barbuni (2014)
Come scrisse Virginia Woolf, «È curioso come la vita emerga con grande intensità da questi brevi e semplici appunti […] sui cambiamenti in giardino, gli umori del fratello e il succedersi delle stagioni. […] In queste note brevissime cogliamo la carica suggestiva che è dote del poeta e non del naturalista, la capacità di scegliere gli elementi più semplici e riordinarli in modo che l’intera scena ci si delinei davanti, intensificata e composta: il lago nella sua quiete, le colline nel loro splendore. […] A volte, l’emozione è talmente intensa che la penna balbetta […]. Ma riusciva a controllarsi. Emotiva e impulsiva di natura, lo sguardo “febbrile e inquieto”, tormentata da passioni che quasi la dominavano, doveva comunque frenarsi, comunque reprimersi, altrimenti avrebbe fallito nel suo compito – avrebbe cessato di vedere».
(“Dorothy Wordsworth”, in The Common Reader: Second Series, 1932, riportato in Voltando pagina, a cura di Liliana Rampello, ed. Il Saggiatore).