Sabato scorso, alla Libreria Morelli 1867 di Dolo (Ve), ho parlato di crime
fiction con un pubblico molto variegato per età e per interessi, ma
ugualmente partecipe e preparato, in una data, il 31 ottobre, che secondo la
cultura celtica e anglosassone segna la fine dell’estate e l’inizio della
stagione delle ombre. Sull’oscurità e sul mistero la crime fiction ha
costruito la sua fortuna – una fortuna che dura, e non accenna a indebolirsi,
da circa centocinquant’anni; ma forse non è alle sue ombre che deve la sua
celebrità, quanto alla luce che si accende alla fine di ogni storia. Una luce,
quella della ragione, che dissipa le paure e gli obbrobri dell’omicidio
grazie all’intervento di un detective.
La figura del poliziotto e il concetto dell’indagine cui noi siamo abituati
sono realtà piuttosto recenti. Prima che venissero ufficialmente create le
forze dell’ordine, a metà dell’Ottocento, i governi erano solito convocare gli
eserciti per controllare le rivolte o le sommosse, ma non esisteva un organo
vero e proprio di prevenzione del crimine, o tantomeno di investigazione. Con l’inizio
del XIX secolo, in Inghilterra, la fine delle guerre napoleoniche comportò l’insorgere
di una grave crisi economica, il ritorno di grandi numeri di soldati ormai
disoccupati, la mancanza di cibo e di ordine, e la scena sociale iniziò ad
essere sconvolta da ricorrenti episodi di violenza. Per questa ragione si
cominciò a pensare di fondare un vero e proprio corpo di polizia, la Polizia
Metropolitana (MET), che però vide la luce, grazie al ministro Robert Peel,
solo nel 1829.
Nel 1842 però avvenne un omicidio
la MET non fu in grado di risolvere, attirandosi lo sdegno e le ironie dell’intera
opinione pubblica. Si decise dunque di fondare un apposito organo di
investigazione, costituito da otto uomini (due ispettori e sei sergenti), cui
fu dato il nome di “Detective Department”. Lo scrittore Charles Dickens ne era
entusiasta, e sulle sue attività scrisse numerosi articoli. Nel suo romanzo Casa
desolata (1852-3), un romanzo quasi kafkiano per la sua
rappresentazione di una giustizia grottesca e malefica, egli creò il primo
detective letterario nel personaggio di Mr. Bucket, su imitazione del vero
ispettore Charles Field, che faceva parte del Detective Department e sul quale
Dickens scrisse anche un saggio (On Duty with Inspector Field). I
lettori iniziarono subito ad essere affascinati dall’idea del detective e della
soluzione dei crimini.
Fra i primi romanzi
polizieschi si annovera The Moonstone – in italiano La
pietra di luna – del 1868, scritto da uno dei principali
collaboratori di Dickens, suo compagno di viaggio e confidente, Wilkie
Collins (1824-1889). La pietra di luna è un
poliziesco autentico, imperniato su un furto di un diamante (la “pietra di
luna”, appunto), e allo stesso tempo un romanzo molto inglese, perché assume la
forma dello spostamento tra metropoli e periferia, ed entro quest’ultima
cornice i fatti si svolgono in una classica residenza benestante di campagna.
Collins ebbe sempre interesse per il gotico e per le personalità scisse, al
limite del delirio: caratteristica della sua scrittura è quella del dubbio sull’identità,
della dimensione onirica (è considerato il più “freudiano” dei narratori
vittoriani), della messa in discussione del principio di verità. La
donna in bianco (The Woman in White, 1859-1860), per esempio, è
celebre per la catena infinita degli eventi e per le costanti strategie di
verità e finzione che si accavallano. Per questa ragione, il romanzo
costituisce un’enorme infrazione della regola del romanzo vittoriano centrata
sull’onniscienza del narratore (che ha un unico antecedente narrativo in Cime
tempestose), perché si basa su testimonianze plurali. La storia è infatti
raccontata secondo lo schema dell’inchiesta o indagine processuale: gli
avvenimenti vengono riportati da una serie di testimoni, alle cui deposizioni
si aggiungono memoriali privati, lettere e un diario. Molto spesso le
testimonianze sullo stesso evento sono addirittura divergenti: non c’è dunque
una verità univoca, ma tante pseudoverità personali.
Più o meno agli stessi anni della
scrittura di Wilkie Collins risalgono i settanta romanzi di Mary
Elizabeth Braddon (1835-1915), amica di Collins e grande interprete
del genere della letteratura “di sensazione” (sensational novel). Il più
celebre fra i suoi libri è Il segreto di Lady Audley, che dal
momento della sua pubblicazione del 1862 non è mai andato fuori stampa. L’importanza
di questo romanzo sta nella sua trasgressione morale e nella sua espressione
delle inquietudini, tipicamente vittoriane, riguardanti la sfera domestica. La
casa, che per l’etica del tempo era considerata il rifugio perfetto da ogni
pericolo, diventa un luogo oscuro e pericoloso, e la donna, il proverbiale
“angelo del focolare”, assume i tratti della violenza, del crimine, e della
violazione delle basilari regole strutturali della famiglia.
C’è un altro nome femminile meno
conosciuto, eppure importantissimo per tracciare una storia della detective
story (anzi, pare che questo termine l’abbia proprio inventato lei): è
quello dell’americana Anna Katherine Green (1846-1935), che
introdusse nei suoi romanzi la figura di una donna investigatrice, Amelia
Butterworth (prototipo di Miss Marple) che assiste nelle indagini il detective
Ebenzer Gryce della polizia metropolitana di New York. Green ha creato anche il
personaggio di Violet Strange, una ragazza dell’alta società con una doppia
vita da investigatrice. La critica attribuisce a Anna Katherine Green le
caratteristiche che avrebbero poi definito la letteratura del crimine di Agatha
Christie e di Conan Doyle, perché è nei suoi romanzi che compaiono per la prima
volta vecchie zitelle investigatrici, cadaveri in biblioteca, inchieste e
testimoni qualificati. In particolare, è l’accuratezza nella descrizione delle procedure
legali ad aver colpito la critica e i lettori, tanto che alcuni suoi libri
furono usati come casi di studio alla facoltà di legge dell’università di Yale.
Tra i suoi titoli più noti, Il caso Leavenworth (1878,
tradotto anche con il titolo Le due cugine), e Due iniziali
soltanto (1911).
Per molti critici le origini di
quella che definiamo la letteratura “gialla” (il “giallo” deriva dal colore
delle copertine scelto da Mondadori a partire dal 1929 per pubblicare storie
noir o poliziesche) risalgono, oltre che alle opere di Wilkie Collins e di Anna
Katherine Green, all’ancora precedente I delitti della Rue Morgue (1841)
di Edgar Allan Poe. Questo è il primo dei tre racconti in cui
compare il personaggio di Auguste Dupin, un investigatore che riesce a risolvere
i casi criminali grazie alle sue enormi capacità deduttive. Il personaggio di
Dupin crea un modello al quale si ispireranno quasi tutti i più importanti
autori degli anni successivi: il più celebre dei suoi epigoni sarà Sherlock
Holmes. (Nel primo libro in cui compare Sherlock Holmes, Uno studio in
rosso, Watson paragona quest’ultimo proprio al Dupin di Poe. Holmes
risponde dicendo di avere capacità ben superiori.)
Questo racconto inaugura lo
schema dell’“omicidio nella stanza chiusa” sfruttato in seguito da numerosi
altri autori di racconti del crimine. In una notte, in un appartamento in Rue
Morgue (si noti che “morgue” in inglese è l’obitorio) a Parigi, vengono
assassinate l’anziana Madame L’Espanaye, trovata nel cortile interno mutilata e
con la gola tagliata, e sua figlia Camille, strangolata e nascosta nella cappa
del camino. La soluzione al caso offerta da Dupin è rimasta celebre nella storia della letteratura gialla per
essere la più improbabile, ma l’unica possibile. Anche Sherlock Holmes dirà a
un certo punto (Il segno dei quattro) che “Eliminato l’impossibile, ciò
che resta, per improbabile che sia, deve essere la verità”. Auguste Dupin è
anche il protagonista di La lettera rubata, racconto del 1845 che
fu successivamente studiato da Freud, da Lacan e da Derrida, e citato da Proust
(Sodoma e Gomorra) e da Sciascia in Todo Modo, che
sottolinea il principio per cui la verità è sotto gli occhi di tutti, ma
proprio per questo nessuno la vede.
Fine prima puntata.