3 agosto 2015

Amori imprevisti di un rispettabile biografo

Due anni fa ho scoperto una scrittrice che solo adesso, grazie a ulteriori letture, imparo a conoscere meglio. E conoscendola meglio posso inserirla senza alcuna remora nell’empireo dei miei preferiti, dei miei “grandi”. È Penelope Lively, al cui romanzo per l’infanzia L’estate in cui tutto cambiò ho già dedicato, con una certa commozione, devo dire, un post dell’agosto del 2013 (http://ipsalegit.blogspot.de/2013/08/l-in-cui-tutto-cambio.html). La scrittrice è nata in Egitto nel 1933 e si è trasferita in Inghilterra a dodici anni; lì ha trascorso il resto della sua vita, e i suoi romanzi e racconti, acclamati dalla critica, si sono guadagnati i premi più prestigiosi della letteratura britannica contemporanea. 
Oggi sono reduce da Amori imprevisti di un rispettabile biografo (According to Mark, trad. it. di Corrado Piazzetta per Guanda), storia bellissima e benedetta da una scrittura di livello eccellente. La trama è semplice: Mark, professione biografo, svolge delle ricerche sullo scrittore degli anni Trenta Gilbert Strong, sulla vita del quale desidera pubblicare un libro. Nel corso dei suoi studi e della permanenza nei luoghi di Strong, Mark incontra Carrie, nipote di quest’ultimo, e per lei perde la testa, nel culmine di una quanto mai malinconica “crisi di mezz’età”. 
Così come in L’estate in cui tutto cambiò, anche in questo libro un plot quasi elementare genera una narrazione di altissimo spessore: di nuovo i fatti si intrecciano saldamente ai pensieri dei personaggi, in una estesa riflessione sul significato del Tempo nella nostra mente e nella nostra vita – tanto che in certi passi sembra addirittura di leggere Henry James o gli altri modernisti. Il tempo come sostanza liquida, amorfa, che si adatta fluidamente ai contenitori del passato così come a quelli del presente, è infatti il fondamento del mestiere di Mark. Nel suo lavoro l’elasticità e la fondibilità dei piani cronologici sono importantissime: “A volte a Mark sembrava impossibile che il passato storico si fosse estinto, svanito; di sicuro doveva essere semplicemente da qualche altra parte, deviato su un altro piano esistenziale, ancora […] disponibile, se solo lo si potesse raggiungere.” Per questa ragione egli è “colmo di emozione” quando si trova a cospetto del punto di sutura degli strati del tempo: lo studio di Gilbert Strong, la sua scrivania, il suo calamaio. Per questa ragione, poi, il protagonista sembra perdere il senso della realtà nel corso del romanzo, precipitando in stati emotivi a lui sconosciuti e ponendosi enormi interrogativi sul ruolo della memoria, dell’esperienza, della letteratura. 
Sua moglie, Diana, è il personaggio perfetto per accostarsi a lui. Come una sorta di Mrs. Dalloway degli anni Ottanta, Diana abita due livelli di vita: quello concreto, della quotidianità, e quello della sua cognizione, che la trasporta avanti e indietro nello spazio, nel tempo e nelle proprietà della materia. Scrive Lively: “Turbinose sono le acque della mente di Diana, un torrente impressionistico che include riferimenti all’Ungheria (sta preparando un gulasch e cerca di ricordare da dove provenga questo piatto), a sua madre (che deve chiamare), a un vestito azzurro con colletto bianco (che ha visto in vetrina questa settimana e sta pensando di comprare), all’ardesia del Galles (un muratore le ha comunicato il preventivo per la riparazione del tetto) e a Mark.” Inoltre, per Diana, “la speculazione era relegata alle congetture sui possibili risultati diversi suggeriti da linee di condotta alternative” – come se lei si trovasse in Sliding Doors, come se anche nella sua mente il Tempo sfuggisse alla sua normale collocazione, proiettandosi costantemente verso un futuro migliorabile. 
La residenza di Thomas Hardy nel Dorset.
Fonte: thetimes.co.uk
Lively sofferma il suo sguardo attento sul ruolo stesso del biografo, di colui che racconta le vite degli altri, sempre in bilico tra indiscrezione e reverenza, tra fiducia e sospetto: “Mentre eri in culla, o non eri ancora nato, Strong sapeva fin troppo bene che qualcuno avrebbe scritto la sua biografia. Aveva accatastato lettere e diari e manoscritti con la piena consapevolezza a un certo punto un uomo o una donna senza volto li avrebbe studiati […]. Fino a che punto si deve al caso, per esempio, che certi volumi dei diari siano sopravvissuti e altri no? Che interi blocchi di corrispondenza siano scomparsi?” Sono interrogativi che tormentano tutti i bravi biografi, che non possono evitare di domandarsi se la storia che stanno raccontando non sia in verità solo uno dei tanti, infiniti punti di vista possibili di una realtà che appartiene a un tempo diverso dal loro. Ma insomma che cos’è la realtà? È un piano di esistenza indipendente dalla nostra percezione cognitiva o è il risultato del nostro esercizio razionale? Mark si domanda: “È mai possibile guardare una qualsiasi cosa, […] senza che le proprie nozioni interferiscano con quel che si osserva?” 
Oltre a stimolare la riflessione filosofica, According to Mark (il titolo originale è più adatto di quello italiano all’interpretazione che ho voluto dare qui di questo romanzo) è un libro pregno di atmosfere fortemente evocative, com’è tipico della scrittura di Penelope Lively. Ad esempio, l’episodio della visita allo studio di Thomas Hardy nel Dorset, descritto tre volte secondo i tre diversi punti di vista di Mark, di Diana e di Carrie, è così perfetto e conchiuso da poter essere un racconto a sé stante. L’esperienza che Carrie fa della lettura di Emma di Jane Austen è un superbo subplot, che obbedisce a regole narratologiche precise. Infine, le ultime pagine si caratterizzano per una certa evanescenza (“un accenno a passioni essicate come petali di rosa, un bisbiglio di ragazza, la luna…”), sospesa sullo spartito della splendida canzone degli anni Trenta Blue Moon, che consiglierei di riascoltare qui per lasciarsi un po’ trascinare via....