18 febbraio 2014

L'età dell'innocenza

Un po’ delusa dal libro di cui ho parlato nel mio ultimo post, che non rende a Edith Wharton i suoi meriti letterari, ho riletto L’età dell’innocenza, il capolavoro della scrittrice americana. Incantandomi per ogni singola parola, ho trovato un romanzo che raggiunge la magnificenza dello stile, della trama, dell'introspezione psicologica, dell'intreccio di temi molteplici e diversissimi che pure confluiscono in un ritratto sociale unico, omogeneo e di respiro ineguagliabile. Ho rivisto anche il film omonimo che Martin Scorsese ne ha tratto nel 1993, e l'ho ammirato per il suo essere una trasposizione quasi perfetta. Se si esclude la discutibile (ai fini della rappresentazione di uno dei temi che descrivo in seguito) scelta di affidare il ruolo di Madame Olenska a un'attrice bionda (Michelle Pfeiffer) e quello di May Welland Archer a una bruna (Wynona Ryder), ribaltando così la coppia cromatica decisa da Wharton, il film è una devota "resa per immagini" delle pagine del romanzo. La voce narrante (in italiano è quella fatalmente suggestiva di Maria Pia Di Meo) è esterna e le sue parole sono proprio quelle del libro; i movimenti dei personaggi in scena, anche i più lievi e apparentemente insignificanti, sono esattamente quelli descritti sulla carta, perché in questo romanzo non c'è un solo dettaglio che sia superfluo o indipendente dallo sviluppo della storia.
Uno dei motivi fondamentali del libro, cui il film obbedisce con estrema cura, quasi con voluttà, è l'esposizione  delle "cose" (oggetti d'arte, gioielli, articoli di abbigliamento o di arredamento e mille altri accessori) che sono il simbolo più immediatamente riconoscibile della ricchezza del ceto sociale cui il protagonista, Newland Archer, appartiene. A partire dai titoli di testa, che sfilano sullo sfondo di una profusione di fioriture artificiali di stoffa e di pizzo, ci sentiamo immergere nell'opulenza e nel lusso: quadri, divani damascati, sculture in marmo, bracciali, zaffiri che pesano sulle dita delle donne, incredibili, serpentini e quasi mostruosi strascichi di seta pesante, guanti ornati di file di bottoni, fermagli per capelli, spille di diamanti, tagliasigari, panciotti preziosi, orologi d'oro, servizi d'argento e porcellane dipinte. Questa ricchezza, subito ostentata, ha l'effetto di togliere immediatamente valore alla parola "innocenza" che troneggia nel titolo del libro (tratto da un dipinto di Joshua Reynolds). Questa storia d'amore, come vedremo, non ha nulla di innocente, e non solo perché è la storia di un potenziale adulterio, ma perché è il pretesto per dipingere il ritratto di una società che, a dispetto delle sue convinzioni, rassicurazioni ed espressioni d'orgoglio, l'innocenza l'ha decisamente perduta.
I temi più importanti del romanzo convergono tutti nell'identificare questa perdita. La patina di "decoro" su cui tutti i personaggi insistono dall'inizio alla fine delle loro esistenze (Scorsese dichiarò in una intervista che per lui "il decoro doveva diventare uno dei personaggi") copre, ma come una lastra di ghiaccio trasparente, un piccolo mondo dominato dalla spietatezza. Scrive Wharton: Poche cose sembravano a Newland Archer più terribili di un'offesa al "Gusto", quella divinità remota di cui la "Forma" era la mera rappresentante visibile. Il fine ultimo del libro è quello di esplorare le tensioni esistenti tra la Natura (i sentimenti, gli affetti, le pulsioni) e la Cultura (il decoro, la forma, i doveri, il rispetto dei valori domestici), incarnata nella Famiglia e nel Tribunale: non a caso, Archer è un avvocato, che però percepisce l'inutilità della propria professione in una società in cui le tradizioni vantano un potere persino superiore a quello della legge.
Questa sovranità della Cultura ha inevitabilmente un effetto trasformante sulla società e sui suoi abitanti, che abituati a anni, a secoli, di silenziosa subordinazione alla sua autorità sono scivolati in una vita del tutto artificiale (come i fiori dei titoli di testa di Scorsese). Il romanzo si apre in un teatro, dove poi tornerà, in occasione del medesimo dramma e della medesima scena, quando la tragedia del protagonista sarà prossima al compimento (la struttura circolare è gestita superbamente dall'autrice), e il teatro è il simbolo dell'artificialità, perché un palcoscenico è anche l'angusto spazio del panoptikòn, esposto allo sguardo, alla sorveglianza e ai commenti di chiunque, in cui si svolge l'esistenza personale dei personaggi. Dichiara Ellen Olenska, la "straniera": Non c'è un posto, in una casa americana, in cui si possa essere se stessi? Voi siete così timidi, eppure così pubblici. Mi sento sempre come se fossi [...] su un palcoscenico, di fronte a un pubblico tremendamente educato che non applaude mai.
Ellen, che Newland ama appassionatamente, è diversa dalle altre donne di New York, la cui "innocenza" è costituita da una serenità vacua, da una desiderata ignoranza e da una purezza rappresentata dagli abiti che indossano. Il suo contraltare è May, la moglie di Newland, personificazione di questo tipo di tradizionale femminilità: E se la "piacevolezza", portata al suo grado estremo, fosse solo una negazione, un sipario calato davanti alla vacuità? Guardando May [...] egli ebbe l'impressione di non aver mai sollevato quel sipario. L'analisi e l'esplorazione reale dei sentimenti e degli intendimenti altrui non è accettata nella New York in cui le donne debbono rimanere ignoranti e silenziose. E' questo un mondo in cui la comunicazione avviene per ellissi, tramite segnali non scritti, ma innati nei membri dell'alta società (cui May obbedisce con facilità ma che Ellen non conosce, firmando così la propria rovina), che vietano la sincerità e vincolano a un senso di inespressività troppo doloroso per Archer: Essi vivevano tutti in una sorta di mondo geroglifico, dove ciò che era reale non veniva mai detto o fatto e neppure pensato, ma era semplicemente rappresentato attraverso un sistema di segni arbitrari.
In questo romanzo Wharton si fa esaminatrice scientifica del costume sociale, e redige un rapporto antropologico. Lo fa con l'ostracismo del linguaggio - le parole usate dai suoi personaggi non comunicano, non esprimono, ma alludono e rimandano - e con la reiterazione del concetto di primitività. L'idea di un ethnos dai confini invalicabili incarnata in una vera e propria forma "tribale" costituisce l'identità di Archer, di May e degli altri rami dei loro complessi alberi genealogici. Il matrimonio è inteso come uno scambio di proprietà della donna da un nucleo familiare all'altro, destinato unicamente alla generazione dei figli (May, nella sua perfezione, non si sottrae nemmeno a questo dovere primitivo imposto dalla tradizione) e Scorsese lo rappresenta in un quadro, appeso a casa di Mrs. Mingott, in cui si vede una giovane trascinata per i capelli da un selvaggio pronto, evidentemente, a impadronirsi di lei. Ma l'aspetto violento dell'appartenenza tribale, raffigurato con una schiettezza scioccante nell'abito da sposa di May, infangato e stracciato la sera in cui la crisi coniugale raggiunge il suo culmine, viene portato sulla scena in occasione della cena offerta dai coniugi Archer per salutare Ellen Olenska, che il giorno dopo lascerà New York alla volta di una nuova vita in Europa. C'erano cose che andavano fatte, e se fatte, andavano fatte bene e fino in fondo; e una di queste, nel codice della vecchia New York, era il raduno tribale intorno a un'appartenente della famiglia che stava per essere eliminata dalla tribù. Questa cena allucinante, durante la quale Archer si rende conto che tutta la gente "che conta", sua moglie compresa, è a conoscenza del suo amore per Madame Olenska, è il palcoscenico su cui si consuma, a beneficio della tranquillità sociale, l'allontanamento del corpo estraneo, di Ellen, che in quanto pharmakòs (capro espiatorio) deve essere necessariamente eliminata per riabilitare la civiltà progredita minacciata dal germe della degradazione morale.
L'età dell'innocenza è il romanzo dello studio antropologico basato sull'analisi dei contrasti: il falso e il vero, il non detto e il detto, la Cultura e la Natura, l'omologazione (Archer) e la ribellione (Ellen), la moglie e l'amante, il decoro e la diversità, il bianco e il nero. Nel libro, May è bionda, e spesso vestita di bianco; Ellen ha i capelli scuri, e i suoi tratti, oltre che il suo passato di moglie di un conte europeo, sono spesso assimilati all'esotico, allo straniero, ai colori della passione. May Welland, con il suo abito candido e un nastro verde chiaro intorno alla vita [...] aveva la stessa freddezza di una Diana che aveva dimostrato, entrando nella sala da ballo dei Beaufort, la sera in cui era stato annunciato il suo fidanzamento. [...] [Da bambina] Ellen vestiva di merino cremisi e portava perle d'ambra, come una trovatella zingara. Possedeva qualità esotiche, come la danza degli scialli spagnola e le canzoni d'amore napoletane accompagnate alla chitarra. Senza dubbio non poteva conseguirne niente di buono.
Contrariamente alla tradizione manichea della luce e del buio, questo romanzo, straordinario ritratto della modernità, individua nell'oscurità di Ellen le "buone" qualità della sincerità, della schiettezza, dell'amore visibile; e nell'imperturbabile candore, gli occhi trasparenti e il sorriso spartano di May un mondo di valori spaventoso e claustrofobico, rappresentato in figure di morte, di vecchiaia, di abiti bianchi, del ghiaccio e della neve della tenuta dei Van der Luyden. Secondo Melville, dopotutto, l'incarnazione del male è una balena bianca, simbolo dell'ignota mostruosità del vuoto. Nella New York degli anni settanta dell'Ottocento la balena non è una bestia da cacciare, ma una creatura morta, le cui vestigia sono usate per soffocare il corpo delle donne, che indossavano una stretta armatura di seta e stecche di balena, con le maniche lunghe, la cui leggera apertura sul collo era riempita di balze di pizzo. Invece Madame Olenska, incurante della tradizione, indossava un lungo abito di velluto rosso [che lasciava] le braccia nude.

5 febbraio 2014

L'età del desiderio

Parafrasando il titolo del (forse) più celebre libro di Edith Wharton, L'età dell'innocenza, Jennie Fields racconta, romanzandola, una parte della biografia della scrittrice americana in L'età del desiderio, pubblicato in Italia da Neri Pozza con la traduzione di Laura Prandino.
Nel sito internet di Fields (http://jenniefields.com/), il libro, basato sulla corrispondenza privata tra Wharton e Anna Bahlmann, è descritto come "un romanzo sontuoso e coinvolgente ambientato nei primi anni del ventesimo secolo, [che racconta] la storia della relazione adulterina e del risveglio sessuale della scrittrice quarantacinquenne Edith Wharton con il giornalista Morton Fullerton. Questa relazione incide sulla vita di diverse persone, incluso il marito di lei, Teddy, un inetto dalle buone intenzioni, e la fedele segretaria e cara amica Anna Bahlmann. Ambientato soprattutto a Parigi, il libro cattura l'età dei saloni letterari, delle automobili condotte dall'autista, degli incontri celati in caffè segreti, della devastante alluvione di Parigi del 1910 e degli oscuri primordi della Grande Guerra."
Tutto vero, ma la bellezza del libro sta altrove. Gli aspetti elencati in questa descrizione costituiscono l'armatura della storia, ma non sono, a mio parere, i più riusciti. Lo spiantato libertino Fullerton non ha nulla del personaggio intrigante e indimenticabile che dovrebbe giustificare la smodata passione della scrittrice; lei stessa appare purtroppo come una figura bidimensionale, troppo spiccatamente egoista (quasi indifferente alla malattia del marito, riconosciuta in seguito come una sindrome maniaco-depressiva), una donna la cui inquietudine non riesce a scavare nel profondo e a restituirci un ritratto autentico. Sorge spontanea una domanda: valeva la pena rendere pubblica la corrispondenza privata della scrittrice se il risultato che ne deriva è un'immagine di lei così scialba e soprattutto "funzionale" a un racconto che ambisce più che altro a essere pruriginoso? Che ne è dello straordinario talento creativo e psicologico di colei che vinse, prima donna in assoluto, il Premio Pulitzer, e che fu giudicata fra i più brillanti scrittori della sua generazione (e non solo)? Era davvero necessario scoprire questa parte della sua vita, quasi per affermare che le altezze della sua arte ne fossero la diretta conseguenza?
A molti interessa la biografia dei grandi autori, perché spesso conoscerla significa comprendere la loro opera, interpretare i loro silenzi, scavare nelle difficoltà compositive per scoprire un messaggio di grande portata - estetica, morale o spirituale che sia. Trovo che in questo caso la rappresentazione romanzata della privacy di Wharton sia stata superflua.
Sono invece molto riuscite le rievocazioni degli ambienti: gli arredamenti delle case parigine, il fulgore delle passeggiate nel centro della città, la bellezza mozzafiato, perché travolgente e selvaggia, della dimora americana dei Wharton. Altrettanto intelligenti sono i cammei del bonario e caro amico della scrittrice, Henry James, e il racconto della storia personale della ex-governante e poi segretaria della scrittrice, Anna Bahlmann. Il suo personaggio è un buon ritratto femminile, più intenso e meno facile da dimenticare di quello della protagonista. La quale, invece, è stata un'autrice benedetta dal genio, e forse meritava molto più di questa tiepida immagine di repressione, di noia e di vacuità.