25 dicembre 2014

Buon Natale!

Ci siamo tenuti compagnia per tutto l'avvento 
con un suggerimento libresco al giorno.
Oggi il nostro cammino si conclude... con tanti libri sotto l'albero!
(e per Ipsa Legit non c'è augurio migliore...)
Buon Natale di cuore a tutti voi!


3 dicembre 2014

Il Giveaway del Mare

Cari lettori, si avvicina il Natale e come noi ben sappiamo non esiste niente di meglio che regalare o regalarsi un buon libro.
Per questo, da oggi fino al 14 dicembre, potete partecipare al

Giveaway del Mare di Ipsa Legit

che regalerà al vincitore una copia del romanzo di mare di Elizabeth Gaskell, Gli innamorati di Sylvia, pubblicato per la prima volta in italiano proprio quest'anno dalla casa editrice Jo March.

Partecipate inviando all'indirizzo ipsalegit@gmail.com una vostra fotografia originale che abbia per protagonista: il mare, o un oggetto legato al mare, o un libro che parla di mare, o una citazione letteraria (con riferimento bibliografico) che riguarda il mare.... Insomma, producete un'opera artistica che abbia per tema il mare! L'immagine riconosciuta come la più bella sarà premiata con un romanzo davvero indimenticabile.

Regolamento. Entro le 23.00 del 14 dicembre 2014:
- cliccate "mi piace" sulla pagina Facebook di Ipsa Legit;
- condividete questo post sulla vostra pagina Facebook;
- inviate all'indirizzo ipsalegit@gmail.com una vostra fotografia originale (formato .jpg) che abbia per tema il mare (il titolo è facoltativo, ma benvenuto), aggiungendo il vostro nome e cognome e l'indirizzo (all'interno dell'Unione Europea) al quale desiderate che venga spedito il libro in caso di vincita. Ricordate di esprimere il vostro consenso alla pubblicazione della vostra foto sulla pagina Facebook di Ipsa Legit;
- il giorno 15 dicembre sarà proclamato il vincitore, al quale subito sarà spedito il libro. La sua foto (con nome dell'autore) sarà pubblicata lo stesso giorno sulla pagina Facebook di Ipsa Legit.

Per finire, ecco dove poter leggere alcuni commenti su Gli innamorati di Sylvia: http://ipsalegit.blogspot.de/2014/06/gli-innamorati-di-sylvia.html
http://lacollezionistadidettagli.blogspot.de/2014/12/gli-innamorati-di-sylvia-di-elizabeth.html
https://francomarucci.wordpress.com/2014/11/30/elizabeth-gaskell-quasi-tutta-tradotta/ 
http://www.mangialibri.com/node/15774 
http://www.sololibri.net/Gli-innamorati-di-Sylvia-Gaskell.html
http://illibroeterno.blogspot.it/2014/07/ultime-novita-gli-innamorati-di-sylvia.html

Foto di Mara Barbuni, 2014

Spargete la voce e buona fortuna a tutti!


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15 dicembre 2014
La foto vincitrice è "Celeste tramonto" di Sofia Carducci :)




21 novembre 2014

Elizabeth Gaskell memorabilia

Il post di oggi è dedicato a quei piccoli oggetti che misteriosamente assumono per noi un valore straordinario. Per me che amo la letteratura gli oggetti più cari sono quelli legati agli scrittori e alle scrittrici: i loro mobili, i loro accessori, la loro carta, le loro penne, i loro libri e tutto ciò che, pur non essendo appartenuto direttamente a loro, serve a mantenerne vivo il ricordo anche nella contemporaneità. 
Più che di parole, questo post sarà dunque fatto di immagini, e il fil rouge che lega è il nome di un'autrice alla quale in questi ultimi mesi mi sento particolarmente affezionata: Elizabeth Gaskell. 
La prima foto è quella della scrivania del signor Gaskell a Plymouth Grove, a Manchester. La Gaskell's House è stata riaperta lo scorso ottobre, e quando io l'ho visitata, a luglio, ho lasciato come traccia del mio passaggio l'edizione Jo March di Gli innamorati di Sylvia. John W., che mi ha accompagnata alla scoperta della casa, mi ha inviato l'immagine (molto suggestiva) che qui sotto riporto: 


Nel corso della mia visita a Plymouth Grove, John ha manifestato una straordinaria gentilezza quando, vedendomi forse particolarmente emozionata per l'esperienza che stavo vivendo, mi ha regalato un frammento della carta da parati originale del salotto di Elizabeth Gaskell. Una volta tornata a casa, ho incorniciato questo stralcio di vita e l'ho appeso sopra il mio scrittoio: 


Per entrare nel merito della scrittura di Mrs. Gaskell, consiglio il sito della John Rylands Library di Manchester, che conserva memorabilia eccezionali. Cominciamo con la miniatura dell'autrice: 

Fonte: https://rylandscollections.wordpress.com/2014/10/05/photo-a-day-05/
The John Rylands Library Special Collections Blog

e continuiamo con una lettera di presentazione che Gaskell inviò al suo amico Charles Eliot Norton: 

Fonte: http://rylandscollections.wordpress.com/2014/08/05/elizabeth-gaskells-inbox/
The John Rylands Library Special Collections Blog

Possiamo fare riferimento alla Digital Library di Leeds (http://digital.library.leeds.ac.uk/5232/) per vedere un estratto della lettera in cui Gaskell racconta la propria visita a Haworth, a casa dell'amica Charlotte Brontë, e al sito della John Wilson Manuscript Ltd. per l'immagine di una lettera che Gaskell scrisse da Parigi, ospite dell'amica Madame Mohl in Rue du Bac: 

Fonte: https://www.manuscripts.co.uk/stock/4377.HTM

E per finire, uno scatto del francobollo con annullo commemorativo emesso dalle Poste inglesi nel 1980 per ricordare questa grande voce del Vittorianesimo:





5 novembre 2014

Quel che non sapeva Jane

Edgar Melville Ward,
"The Washing Day", 1874
(Fonte: artnet.com)
Una delle mie composizioni in versi preferite è la poesia di Anna Barbauld (1743-1825) “Washing Day”, che approfittando della cornice del giorno del bucato racconta la grande forza e determinazione delle donne e allo stesso tempo paragona la voce poetica alle bolle di sapone — evocando così non solo sensazioni di leggerezza ma anche la capacità della poesia di librarsi in aria e di raggiungere l’infinito. Le immagini richiamate dai primi versi sono fulminee, vera espressione dell’energia e della fatica del bucato all’inizio del diciannovesimo secolo: scorgiamo le braccia rosse e il volto corrucciato delle donne, il gatto che scappa via dalla cucina per paura dell’acqua spruzzata ovunque, la colazione abbandonata a metà perché il cielo si sta rannuvolando e bisogna iniziare immediatamente a lavare e a stendere, l’uomo di casa che si aggira sperduto in giardino, timoroso di intralciare il lavoro, e che viene aggredito dai panni appesi ai fili, che garriscono come bandiere di guerra. Il tono di “Washing Day” è fortemente ironico, e alcuni critici hanno rimproverato a Barbauld l’assenza di una visione seria e ragionata sulle fatiche reali compiute dai servitori e dalle domestiche, le cui condizioni di vita e di lavoro, persino nell’illuminata Inghilterra del primo Ottocento, violavano anche la minima parvenza dei diritti della persona. 
Longbourn House di Jo Baker (Einaudi 2014), il libro che ho letto la scorsa settimana, si fa invece carico di questa esigenza e comincia — secondo me non a caso — esattamente in un giorno di bucato. Ambientato nella casa della famiglia protagonista di Orgoglio e pregiudizio di Jane Austen, questo racconto sfiora vagamente le risaputissime vicende di Elizabeth Bennet (Mr. Darcy si fa vedere sì e no un paio di volte) e si concentra invece sulle storie dei domestici di Longbourn, costruendo una narrazione intensa e forte, votata a un implacabile realismo. 
I motivi di questo libro, che mi è piaciuto davvero molto, sono molteplici e intrecciati con grande sapienza narrativa. La rappresentazione di “quel che non sapeva Jane” — o che magari sapeva ma non voleva raccontare, preferendo lasciare che “altre penne si soffermassero sulla colpa e la miseria” (Mansfield Park, cap. 48), è vividissima: pagina dopo pagina ci scontriamo con la sporcizia del vivere quotidiano, con le conseguenze talvolta disgustose della corporeità, con sofferenze fisiche concrete, con la barbara, crudissima violenza della guerra e con il terrore di una giustizia cieca e approssimativa — sì, persino nell’illuminata Inghilterra del primo Ottocento (come del resto ci racconta bene Elizabeth Gaskell in Gli innamorati di Sylvia).
Quello che in definitiva mi è sembrato di riconoscere come il tema principale del romanzo è la contrapposizione tra due universi distinti: da una parte vivono coloro che possiedono, dall’altra coloro che non hanno niente. I riferimenti al “possesso”, che a sua volta genera “sicurezza” (opposta alla rovina, alla degradazione e all’annichilimento di chi non ha un posto dove stare, fosse anche un posto di lavoro) sono frequentissimi: se Sarah, la protagonista, possiede solo una scatola di legno, le camere delle ragazze Bennet e della loro madre sono ingombre di cose — scarpe, gioielli, nastri, suppellettili, stoffe, cappellini, fiori, scialli —, dalla cucina non fanno che uscire cibi di tutti i tipi, e in quantità strabordante, gli uomini che fanno la loro comparsa sulla scena non sono citati altrimenti che per il denaro che possiedono, e persino Elizabeth si rivolge alla sua cameriera come se si trattasse di una proprietà di cui poter disporre senza eccessivi ripensamenti (a questo proposito devo osservare che il ritratto di Lizzy in Longbourn House è davvero interessantissimo). 
Molto significativo e visibile, dunque, è anche il richiamo di Jo Baker alla politica contemporanea (di cui, come sappiamo, Jane Austen si occupa solo marginalmente, lasciando che sia il lettore a dedurre le implicazioni sociali ed economiche di romanzi come Mansfield Park o Persuasione). Le guerre napoleoniche non sono qui una vaga minaccia, ma una presenza viva, che coinvolge in prima persona uno dei protagonisti; e la natura delle ricchezze di parte della società inglese, derivata da un atroce sfruttamento imperialista, non si nasconde, ma prende forma chiara nelle parole del valletto (mulatto) di Mr. Bingley. 
Nella bella trasposizione cinematografica del 2005 di Orgoglio e pregiudizio (regia di Joe Wright), che mette in atto un’interpretazione del romanzo da un punto di vista dichiaratamente ispirato al Romanticismo con la sua preponderanza del paesaggio, le sue musiche e la rappresentazione dell’armonia tra natura e sentimenti umani (emblematiche, a questo proposito, la prima proposta di matrimonio di Darcy, che avviene in un parco sotto la pioggia battente, anziché nel salotto dei signori Collins, e la scena che vede Lizzy su una delle vette del Peak District), sentiamo in più di un’occasione la serva di Longbourn che canta. Leggendo la storia di Sarah narrata da Jo Baker ci viene da pensare che lei non avrebbe mai avuto l’energia e la voglia di cantare. Longbourn House, infatti, non ha proprio niente di romantico, ma ha il pregio di mostrarci, senza filtri, la verità.

29 ottobre 2014

Storici, discepoli e vampiri


Le ricorrenze sono piacevoli anche perché ci permettono di ripensare a libri letti in passato, ma così memorabili che meritano di essere tolti dallo scaffale e risfogliati una volta di più. Per l’imminente Halloween ho scelto di rileggere The Historian di Elizabeth Kostova (Il discepolo, tradotto da M.B. Piccioli, BUR 2006). Premesso che, a parte il capolavoro del Dracula di Bram Stoker, io mi tengo prudentemente alla larga da tutte le storie che mettono in scena vampiri, zombie e compagnia urlante, questo libro, che racconta una pericolosa quest sulle tracce del reale iniziatore della leggenda di Dracula (Vlad III, l’“impalatore”), è stata una vera e indimenticabile esperienza di lettura. 
In settecento pagine l’autrice narra in prima persona di viaggi nelle lande sperdute della Transilvania, di indagini in oscuri e polverosi anfratti di antiche biblioteche, di lettere vietate da un amore paterno senza confini e di strazianti legami familiari, mentre i ricordi, la fantasia e le paure evocano ad ogni pagina lo spettro di quel mostro che, vissuto nella Storia, non trova pace nella nostra cultura. L’aspetto più avvincente e insieme più inquietante del romanzo è la competenza dell’autrice in merito all’argomento trattato. Le servirono dieci anni per scrivere questo libro, che al di là della fiction è un saggio accademico, e ogni suo singolo paragrafo ce ne spiega la ragione. Da eccellente storica, Kostova ci trascina nella sua narrazione citando evidenze e fatti realmente accaduti, descrivendo luoghi che potremmo visitare anche domani mattina, attirando la nostra attenzione su conoscenze e tradizioni popolari che fanno parte dell’immaginario di tutti noi. I suoi passi si muovono dal passato remoto dell’esistenza di Vlad a quello più recente della vita di suo padre, fino al tempo presente, quando l’io narrante eredita proprio dal genitore la necessità della ricerca e a sua volta, tramite il suo racconto, la affida a chi legge. Ed è per tutte queste caratteristiche che il libro riesce veramente a “far paura”: mentre lo scenario cambia dalle deserte foreste medievali alle strade affollate di automobili del giorno d’oggi, capitolo dopo capitolo ci sentiamo sempre più coinvolti, sempre più, a nostra volta, “discepoli” di uno “storico” (per citare sia il titolo italiano che quello originale) che ha intrapreso un percorso di ricerca orrifico. 
Il senso di inquietudine che pervade l’intero romanzo inizia a serpeggiare sin dalla Nota al lettore che precede il racconto, e che contribuisce, perché stilata esattamente come quelle che introducono i saggi accademici (citazione di fonti e ringraziamenti), a farci sentire subito dentro una “storia vera”. Ne traduco due brani dalla versione inglese, sottolineando quante volte compaia proprio la parola storia, fondamentale per comprendere il valore di questo libro (che vendette più di novecentomila copie in due mesi): 

“Ciò che segue è una storia che non avrei mai voluto mettere su carta. Di recente, tuttavia, un evento traumatico mi ha indotta a guardarmi indietro e a ricordare gli episodi più inquietanti della mia vita e della vita di coloro che ho più amato. Questa è la storia di come, all’età di sedici anni, partii alla ricerca di mio padre e del suo passato, e di come egli andò alla ricerca del proprio amato mentore e della storia del suo mentore, e di come noi tutti ci ritrovammo lungo uno dei sentieri più oscuri della Storia. È la storia di chi è sopravvissuto alla ricerca e di chi non ce l’ha fatta, e perché. Essendo una storica, ho imparato infatti che non tutti coloro che s’inoltrano a ritroso nella Storia riescono a sopravvivere. È non è solo il procedere all’indietro che ci mette in pericolo; a volte è la Storia stessa che ci insegue, e ci raggiunge inesorabile con gli artigli delle sue ombre. […] La mia grande speranza nel rendere pubblica questa vicenda è di poter trovare almeno un lettore che la comprenda per ciò che realmente è: un grido dal cuore. A te, acuto lettore, lascio in eredità la mia storia”. 
E da parte mia, buona notte di Halloween….


22 ottobre 2014

Ho sposato il mondo

Tanto tempo fa, guardando un documentario dedicato a Maria Callas, ho sentito nominare per la prima volta Elsa Maxwell. Si parlava di questa giornalista come di una terribile pettegola, da parte della quale ci si aspettava un’aspra recensione a seguito di una performance discutibile della divina. Le immagini in bianco e nero mostravano anche un suo fugace passaggio nel foyer del teatro: una donna non più giovane, tozza, avvolta in una opulenta pelliccia. Dalla visione di quel documentario sono sempre stata incuriosita dal personaggio di Elsa Maxwell e quando ho scoperto che la casa editrice Elliot aveva pubblicato la sua autobiografia non ho potuto che desiderare di leggerla. 
Il libro si chiama Ho sposato il mondo, e racconta l’incredibile vicenda di un’americana piuttosto bruttina e non particolarmente benestante che, benedetta da una fortuna indescrivibile, si impone sulla scena sociale della prima metà del Novecento fino a diventare un simbolo del lusso sfrenato di cui godevano la nobiltà, la plutocrazia e il mondo dello spettacolo. Il racconto, in prima persona, ci fa entrare in un universo rutilante nel quale, come per magia, Elsa ha l’occasione di incontrare (e non solo, ma anche di discutere, e spesso di stringere forti amicizie con) la maggior parte degli uomini e delle donne più interessanti del suo tempo: solo per citarne alcuni, Winston Churchill, l’Aga Khan, Greta Garbo, Rita Hayworth, la Duchessa di Windsor (al secolo Wally Simpson, amante e poi moglie del Re che abdicò), Marlene Dietrich, Charlie Chaplin, Albert Einstein, Noel Coward, Christian Dior, Aristotele Onassis, e decine e decine di altre personalità che hanno scritto la storia del secolo lungo. Le scenografie sulle quali si stagliano i drammi borghesi recitati da tutti loro sono quelle — da sogno — delle grandi navi che attraversavano l’Atlantico per scaricare centinaia di americani annoiati sulle eleganti coste inglesi, i palazzi di Montecarlo, le spiagge fascinose del Lido di Venezia. 

Il resoconto delle avventure di Elsa è così denso di eventi e di grandi nomi che in certi momenti si inizia persino a dubitare della sua veridicità. Di certo la personalità dell’autrice era complessa e fitta di chiaroscuri, sebbene le sue memorie si sforzino di rappresentare solo la faccia luminosa della medaglia della sua vita. Se si cerca (e non è facile) di non restare abbagliati dai paraphernalia con cui l’io narrante cerca costantemente di confonderci — come le descrizioni delle sue memorabili feste, delle sue epiche cacce al tesoro, dei regali iperbolici che riceveva da stilisti e politicanti — si riesce a individuare una donna investita dalla solitudine. L’esistenza di Elsa Maxwell attraversò fasi di tremenda povertà, fu testimone di due guerre mondiali, e soprattutto non conobbe mai l’amore. Nella sua autobiografia ella scherza sulla propria bruttezza (è tuttora conosciuta con l’appellativo di “rospo”) e se ne rallegra, perché questa “qualità” le ha consentito di entrare nell’alta società senza compromettere i suoi rapporti con gli uomini e senza suscitare le gelosie delle loro mogli. Ma la mancanza perpetua di un compagno o di una compagna (è opinione molto diffusa che a un certo punto Elsa si innamorò perdutamente di Maria Callas, e che le sue insistenti avance furono respinte con aspra freddezza) non riesce a passare in secondo piano, e forse plasma anche il tono stesso di queste memorie, che tradiscono uno sforzo sovrumano di esposizione compulsiva di se stessa e dei propri successi. Se Maria Callas aveva la voce, Greta Garbo il fascino imperituro, Albert Einstein il genio e Winston Churchill il talento politico, Elsa Maxwell aveva i suoi “contatti”. E cercò di farne una ragione di vita.

14 ottobre 2014

Il giorno che morì Stalin

La casa editrice pisana ETS ha di recente inaugurato una nuova collana, tutta dedicata alla narrativa di lingua inglese: si chiama “Papyngo”, è diretta da Franco Marucci e promette la (ri)scoperta di piccole gemme di letteratura. 
L’esordio della collana è affidato a un racconto del premio Nobel Doris Lessing, Il giorno che morì Stalin, che a mio parere è uno fra i più interessanti della sua produzione “breve”. Al di là della indiscutibile pregevolezza della narrazione e della bellezza dell’oggetto-libro, che è decisamente molto curato – carattere chiaro, impaginazione pulita e carta particolarmente piacevole al tatto –, ciò che sicuramente incanterà il lettore sono l’alta qualità della traduzione (di Bianca Tarozzi) e la forza della sezione critica che precede il racconto, firmata da Cristina Gamberi. 
Non è facile, di questi tempi (in cui le pubblicazioni sono quasi compulsive, e l’editoria non ha abbastanza tempo a disposizione per dedicarsi alla cura del valore dei paratesti), trovare introduzioni così “dense” e interessanti. Queste pagine esplorano il mondo e l’opera di Doris Lessing, seppur brevemente, con grande attenzione, e sono indispensabili (altra cosa piuttosto rara) per il godimento del racconto che segue. I temi su cui si soffermano sono l’irrequietezza della generazione di Lessing (ereditata dal nostro tempo?), la disillusione insorta con la caduta delle grandi ideologie e il disvelamento dei loro crimini, il senso di solitudine, di incompiutezza e di non-appartenenza di una scrittrice che per anni ha cercato una “casa” (fisica ma anche ideale) diversa da quella che le era toccata in sorte. 
Il giorno che morì Stalin, brevissimo racconto in prima persona che manifesta queste e altre tematiche, dà voce soprattutto al sentimento di incertezza e di irrisolta incapacità di trovare un senso nelle cose che ha marcato fortemente il mondo postbellico, mettendo radici così profonde che ancora oggi sembriamo non essere in grado di liberarcene. 
Non voglio aggiungere altro, perché il libricino merita di essere letto in prima persona: come sempre accade, è attraverso i nostri ricordi e le nostre personali sensazioni ed esperienze che possiamo riconoscere pienamente la potenza della grande letteratura.

24 settembre 2014

Sei romanzi perfetti

È confortante sapere che, oltre a un catalizzatore di clamorose passioni, facili entusiasmi e manifestazioni idolatriche, Jane Austen è ancora il soggetto di una felice e ben riuscita analisi critico-letteraria.
Leggere Sei romanzi perfetti di Liliana Rampello (Il Saggiatore, 2014) mi ha restituito quello che io ritengo il valore più puro e autentico dell’amore per questa scrittrice, ovvero il riconoscimento del suo talento narrativo e stilistico e della perfezione della sua scelta linguistica.
Il saggio, strutturato con estremo ordine, percorre con grande concentrazione le trame del corpus canonico di Austen, ma allo stesso tempo si dedica ad analisi puntuali di un ricchissimo sottotesto teorico. Le citazioni da grandi critici come Auerbach, Moretti, Praz, Steiner, Watt, Woolf e tanti altri, lungi dallo spaventare o allontanare il lettore appassionato, lo attirano verso il discorso aprendogli dimensioni di comprensione forse mai sperimentate prima.
I grandi temi che questo saggio affronta sono importanti per il loro relazionarsi con i romanzi di Austen ma anche per la loro valenza universale: sono la libertà, la parola e il dialogo, la formazione individuale e la coscienza del sé, la convivenza tra uomini e donne nel contesto sociale, il conflitto e l’evoluzione storica delle classi, il rapporto tra evento narrato e luogo della narrazione (il microcosmo della scena e il macrocosmo dello “stato-nazione” europeo). In nome di queste amplissime categorie Liliana Rampello si propone di conoscere, riconoscere e ripresentare i personaggi (soprattutto femminili) di Jane Austen; e le sue argomentazioni, ricche e chiare, si soffermano a illuminare aspetti di Elizabeth, Emma, Anne, Fanny, Mary, Marianne ed Elinor che stimolano le riflessioni anche del lettore austeniano più esperto.
La trattazione più affascinante (perché questo saggio, oltre a essere preciso e competente, è anche “bello” da leggere) è stata per me quella di Persuasione. In Anne Elliot Liliana Rampello vede la personificazione di una “donna nuova” che innanzitutto è il nostro unico veicolo di conoscenza della storia che la vede protagonista, e in secondo luogo è il simbolo dell’affermazione di un’autocoscienza individuale e sociale – quella della “donna” da un lato e quella della nuova classe dominante dall’altro (la borghesia delle “professioni” cui appartiene il Capitano Wentworth, che Anne preferisce a un’aristocrazia ormai esausta).
In conclusione, Sei romanzi perfetti è una lettura decisamente consigliabile, perché ha la virtù di saper accontentare tutti i tipi di lettori: sia coloro che conoscono molto bene Jane Austen sia coloro che l’hanno letta solo raramente; sia chi si lascia avvincere dalla bellezza immediata dei suoi romanzi sia chi vi ricerchi strati più profondi di significato.

17 settembre 2014

La cugina Phillis

Quando si entra nel mondo della narrativa di Elizabeth Gaskell, ci si deve preparare a trovare lungo il cammino tante e variegate forme di racconto. 
Il romanzo con cui io ho varcato questa soglia, ormai dodici anni fa, è stato North and South (che dal 2011 si può trovare anche in versione italiana, tradotto da L. Pecoraro per Jo March). Nord e Sud appartiene al gruppo dei romanzi “sociali” di Mrs. Gaskell, insieme a Mary Barton e a Ruth, storie in cui l’autrice riversò tutta la sua conoscenza e la sua esperienza della vita delle classi povere e disagiate; Elizabeth fu sempre sensibile ai drammi degli strati più bisognosi della popolazione: era solita visitare le loro case, aiutare in prima persona, organizzare per loro opere di beneficenza e di istruzione. Con Nord e Sud io scoprii una scrittrice eccezionale, della quale volevo conoscere il più possibile: mi feci dunque spedire dall’Inghilterra Sylvia’s Lovers (Gli innamorati di Sylvia, che poi ho tradotto per Jo March, 2014), Cranford e Cousin Phillis (in un unico volume Penguin), una raccolta di racconti gotici e Wives and Daughters. (Traducibile in Mogli e figlie, questo romanzo, non ancora disponibile in italiano, segna l’apice della scrittura gaskelliana, non solo perché è l’ultimo, ma soprattutto perché è il suo capolavoro stilistico.) 
Questa settimana ho voluto rileggere Cousin Phillis (disponibile in inglese, gratuitamente, su gutenberg.org e in italiano, con il titolo Mia cugina Phillis, nell’ottima traduzione di Francesco Marroni per Marsilio, 2001). Questo romanzo breve – o racconto lungo – è una vera e propria gemma, il risultato perfetto della fusione di una scrittura ormai matura, sapiente e controllata, con una storia semplice e delicata ma intensissima nelle emozioni e nella rievocazione dell'ambiente (cifra stilistica nonché supremo talento di Elizabeth Gaskell), del quale ci sembra di vedere i colori e di sentire le voci e i profumi. Mia cugina Phillis è come un nastro di lucida seta, che unisce Gli innamorati di Sylvia e Mogli e figlie: la protagonista è l’adolescenza femminile, il contesto della storia ha un ruolo così dominante da diventare quasi un personaggio (Monkshaven, la fattoria degli Holman e Hollingford sono cornici senza le quali il dipinto perderebbe gran parte del suo significato), e il racconto è centrato sulla maturazione di un amore sofferto. 
Fondamentale e unica in Mia cugina Phillis è la dimensione del ricordo. Quasi come in un riflesso di poesia wordsworthiana (penso al Prelude o a Tintern Abbey: Elizabeth amava tantissimo Wordsworth, che era il suo poeta preferito insieme a Tennyson), il narratore, Paul, rievoca i giorni della sua giovinezza e della sua frequentazione con la cugina Phillis Holman e i suoi genitori. La ragazza è una contadina, come Sylvia, ma suo padre, ministro della chiesa, l’ha educata a leggere il latino, il greco, e la Divina Commedia in lingua originale, cosicché, quando noi, insieme a Paul, la incontriamo per la prima volta, Phillis è una giovane donna consapevole di sé, forte, di una bellezza che riflette anche le profondità dei suoi pensieri: “Mi guardò fisso in volto, con occhi grandi, tranquilli, dall’espressione interrogativa, ma niente affatto turbati dalla vista di uno sconosciuto” (qui e in seguito le traduzioni sono mie). Straordinaria è l’immagine che ci viene data di lei intenta a leggere: “Una corrente d’aria proveniente da una fonte invisibile aprì leggermente la porta di comunicazione con la cucina […]; e io vidi parte della sua figura seduta al tavolo, mentre lei sbucciava le mele con destrezza, e insieme voltava ripetutamente il capo verso un libro appoggiato accanto a lei.” 
Istantanea della campagna inglese. Foto di Mara Barbuni, 2014
Il romanzo è permeato di descrizioni della natura circostante: cresciuta a sua volta in campagna, che amò per tutta la sua vita, Elizabeth è una perfetta pittrice dell’esistenza rurale, dei suoi ritmi quieti e delle sue tradizioni arcaiche. Il punto culminante della sua attenzione per l’armonia dell’umanità dentro la natura è, in Mia cugina Phillis, il passo dedicato alla raccolta delle mele: “Di notte arrivava il gelo, la mattina e la sera c’era foschia, ma a metà giornata il tempo era soleggiato e luminoso […]. Trovammo grandi cesti ricolmi di mele, che profumavano tutta la casa e ingombravano il passaggio, e un’aria universale di gaia contentezza […]. Le foglie gialle pendevano dagli alberi, pronte a cadere fluttuando per il primo soffio d’aria; i grandi arbusti di margherite di San Michele nell’orto facevano mostra della loro ultima fioritura.” E anche Phillis è come un fiore, che cresce e sboccia nel calore dell’aspettativa (“Mia cugina Phillis era come una rosa, che raggiunge il suo massimo fulgore lungo il lato esposto al sole di una casa solitaria, riparato dalle tempeste”) e poi rischia di appassire nel gelo della disillusione inflittale dalla lettera di Holdsworth: “Il mio cuore era gonfio. Come tutto sembrava pacifico nella fattoria! […] Com’era immobile e profondo il silenzio nella casa! Tic tac, procedeva l’orologio invisibile sull’ampia scala. Sentii che lei aveva voltato il foglio di carta sottile. Doveva aver letto fino alla fine. Eppure non si mosse, non disse una parola, non sospirò neppure”; “Phillis non parlò, ma guardò fuori dalla finestra aperta, verso la grande e quieta luna, che si muoveva piano sul cielo del crepuscolo. Pensai che i suoi occhi si stessero riempiendo di lacrime.” 
Sarà Molly Gibson, la protagonista di Mogli e figlie, a continuare la storia di Phillis per condurla verso il lieto fine. Le ragazze cadono vittima della stessa malattia, quella “febbre cerebrale” così frequente nella narrativa ottocentesca (ne soffrono anche Madame Bovary e Anna Karenina), iniziata sempre a causa di una insopportabile sofferenza emotiva; ma mentre Mia cugina Phillis si chiude su una guarigione ancora minacciata dalla debolezza, Mogli e figlie apre per Molly un futuro più luminoso. E la sua prospettiva finale di felicità segna il vero coronamento di una scrittura, quella di Elizabeth Gaskell, dedicata interamente all’analisi dei sentimenti umani.

7 settembre 2014

La vita segreta di Bletchley Park

Questa settimana abbiamo ricordato i settantacinque anni dall’inizio della seconda guerra mondiale. Nonostante il passare del tempo, la storia del conflitto rimane viva - per chi la vuole ascoltare - grazie alle testimonianze ancora presenti e alle decine, centinaia di libri (saggi e romanzi) che l’hanno raccontata, e che – com’è compito della letteratura – hanno tentato e tentano di insegnarci a non ripetere i tragici errori già compiuti. 
Questa settimana io ho concluso la lettura di un corposo volume dedicato a un singolo aspetto, molto particolare, di quel conflitto – una pagina sui generis, che però ha cambiato le sorti della guerra e ha impedito con strenua forza di volontà la caduta dell’Europa nell’abisso. The Secret Life of Bletchley Park di Sinclair McKay (non c’è traduzione italiana, purtroppo) racconta la storia di quella straordinaria dimora sperduta nel Buckinghamshire (a 75 km da Londra) dove poco prima dello scoppio della guerra iniziarono a radunarsi i più brillanti geni inglesi della matematica e della linguistica (ma anche dell’egittologia e persino dell’astrologia). Giovani arruolati direttamente nelle università, rampolli di famiglie nobili, ma anche ragazzini e ragazzine senza speranze, si trasferirono nella tenuta di Bletchley Park e lì, con turni di lavoro sfiancanti, condizioni di vita spartane e il più severo obbligo di segretezza (la verità sui loro incarichi fu resa pubblica solo trent’anni dopo), lavorarono alla decrittazione dei codici di Enigma, l’infernale macchina con cui i nazisti cifravano i loro messaggi. 
Bletchley Park
La forza del libro, che non è un romanzo, ma è basato interamente sulle testimonianze dei protagonisti di quel tempo, sta nel suo talento di rievocazione di un luogo, di un’epoca, di una generazione. “La facciata della casa dava sulla città, ma qualsiasi scorcio di Bletchley era oscurato dagli alberi. L’unico aspetto che ricordasse l’esistenza del mondo esterno erano le grida distanti del fischio del treno, che riecheggiavano nell’aria primaverile” (qui e altrove, la traduzione è mia). “Tutti i giorni, dopo pranzo, quando il tempo era favorevole, i decrittatori giocavano a rounders [gioco simile al baseball] sul prato della grande casa, con quell’atteggiamento semiserio ostentato dai docenti universitari quando sono impegnati in attività che potrebbero essere considerate frivole o insignificanti, se paragonate con i loro più importanti studi. Così, essi erano soliti discutere per un punto della partita con lo stesso fervore con cui avrebbero dibattuto la questione del libero arbitrio o del determinismo, o se il mondo sia iniziato con il big bang o con un processo di creazione continua.” 
Ma The Secret Life of Bletchley Park è anche avvincente per la sua accurata descrizione di Enigma: simile a una macchina da scrivere, il congegno era stato messo in vendita nel 1923, e dapprincipio era stato acquistato soprattutto da banchieri che desideravano mantenere segrete le loro comunicazioni. Quando la marina tedesca acquisì il sistema (dopo che il ministero degli esteri britannico l’aveva ritenuto grossolano e inadatto), lo tolse dal mercato, lo modificò, e lo trasformò nell’elaboratore di codici che rimasero per lungo tempo inaccessibili. Il principio di Enigma era il seguente: “le macchine Enigma cifravano i messaggi e, una volta che questi raggiungevano la loro destinazione, li decrittavano. L’operatore pigiava un tasto sulla tastiera normale; un paio di secondi dopo, tramite corrente elettrica convogliata nelle ruote con le lettere del codice, una lettera diversa si accendeva sull’adiacente tastiera a caratteri luminosi. 
Enigma
L’operatore prendeva nota di questa seconda lettera. E così via, per tutti i caratteri che componevano un messaggio. La versione cifrata veniva poi comunicata via radio in codice Morse al suo destinatario. Costui, che aveva una macchina Enigma configurata allo stesso identico modo, digitava le lettere codificate una a una – e una a una, quelle vere si illuminavano sulla sua tastiera a caratteri luminosi.” Il solo – terribile – compito delle reclute di Bletchley Park era decrittare i codici. E ci riuscirono: il loro lavoro, secondo il presidente Eisenhower, abbreviò la durata della guerra di almeno due anni, ma secondo altri storici l’apporto fornito al mondo dalla compagine di decrittatori chiusi nel segreto e nei confini di quel parco nel Buckinghamshire sarebbe anche più significativo. E non solo ai fini della vittoria del conflitto. Nelle fila di quei giovani talenti condannati all’oblio (del loro straordinario impegno non poterono né parlare né scrivere per decenni) si trovava infatti anche il dottor Alan Turing, considerato il padre della scienza informatica e dell’intelligenza artificiale. Turing sviluppò un sistema (“macchina di Turing”) che riuscì a decifrare in velocità e con efficienza i codici formulati dalla macchina tedesca derivata da Enigma. La vita privata di questo incredibile genio, però, non gli riservò le soddisfazioni che egli avrebbe meritato. Accusato di omosessualità in un periodo in cui la legge inglese lo considerava ancora un reato, Turing fu condannato alla castrazione chimica. Morì suicida, mangiando una mela avvelenata al cianuro, nel 1954. Le scuse del governo britannico (“per conto del governo britannico, e di tutti coloro che vivono liberi grazie al lavoro di Alan, sono orgoglioso di dire: ci dispiace, avresti meritato di meglio” dichiarò l’allora premier Gordon Brown) giunsero nel 2009; la grazia da parte della sovrana fu elargita nel 2013.

3 settembre 2014

Ai giovanissimi che amano la letteratura

Care ragazze e cari ragazzi, ci sono cose che, per quanto amare, è bene che vengano dette e ascoltate. Penso che se qualcuno avesse spiegato a me ciò che sto per dire a voi sarebbe stato meglio. Amate la letteratura, i libri, la storia dell'arte, la storia, la filosofia... e vi piacerebbe che la vostra passione e le vostre conoscenze vi aprissero un posto di lavoro (come accade per tanti altri tipi di conoscenze)? Mi sembra normale. Magari vi piacerebbe persino diventare insegnanti, cosicché quella passione e quelle conoscenze aiutassero un giorno ragazzi come voi a crescere più consapevoli, più aperti, più tolleranti, più giusti. Oppure vi piacerebbe diventare ricercatori, per aiutare a incrementare la sapienza globale. Bene, lasciate perdere. Insegnanti non lo diventerete mai. L'avete sentito, è notizia di oggi. Con la cancellazione delle graduatorie della scuola pubblica previsto per i prossimi anni... non ci sarà più posto per voi. Se proprio avete una passione smodata per l'insegnamento potreste sperare di ottenere un posto di lavoro in una scuola paritaria, ma sappiate che molte sono inaccessibili, e in alcune - tante - non si viene pagati. Per quanto riguarda la carriera accademica, vi dico solo questo: non laureatevi (almeno per la Specialistica) in Italia. Andate altrove: Regno Unito, Germania, Scandinavia. Studiate lì, così avrete la possibilità di fare poi un dottorato che valga qualcosa per la vostra carriera, e di conseguenza un post-dottorato che vi consenta di fare esperienza non solo di ricerca ma anche di insegnamento universitario (cosa che in Italia non avviene). Altrimenti sappiate che... beh, entrare nelle case editrici è quasi un'utopia (c'è un'altissima probabilità che non vi rispondano neppure, quando manderete loro il vostro CV); lavorare nelle biblioteche è una procedura molto complessa, interna al campo della Pubblica Amministrazione, e comunque è il caso di specializzarsi in materie specifiche, come la biblioteconomia (corso di laurea che io personalmente, se avessi la vostra età, frequenterei subito); per diventare traduttori letterari... è giusto che vi dica che avete la stessa possibilità di ricevere un incarico di qualcuno che i vostri titoli non li ha, e comunque è un mestiere che solo in rari casi garantisce uno stipendio regolare (come invece sono regolari le rate della macchina, l'affitto, le bollette, etc.). Per non dire che le vostre alte qualifiche vi renderanno sempre poco appetibili nel mercato del lavoro, perché, proprio in virtù delle vostre qualifiche, si temerà sempre di dovervi pagare troppo, e si sceglierà dunque qualcun altro. Ripeto, lasciate perdere. Trovatevi un lavoro qualsiasi appena finita la scuola, o se proprio volete continuare a studiare (sicuri?), scegliete una facoltà "tecnica" (economia, business, gestione d'impresa, marketing, informatica, quello che volete, basta che siano campi dove si "fanno i soldi"), e non importa se non vi piace e se non vi sentite portati per quella materia! Non importa. Nel frattempo potrete dedicare alla letteratura, storia, arte, filosofia, musica, il vostro tempo libero. Perché, almeno in Italia, la letteratura e le altre scienze umanistiche non sono scienze (appunto), ma è roba da tempo libero. Vi consiglio quindi di restare nell'ambito degli "amatori" della letteratura, e di cercare altrove la fonte economica della sopravvivenza. Altra cosa: se intendete prendere delle certificazioni linguistiche, controllate prima quali sono accettate in Italia. Potrebbe essere, per esempio, che frequentiate un corso e sosteniate un esame di tedesco a Berlino - faccio per dire; ma in Italia non vi sarà riconosciuto, perché al Ministero non conoscono la società (che si chiama Società per la Lingua Tedesca, tanto per dire!) che l'ha organizzato.
Capisco che è triste leggere certe cose, ma sto cercando di essere onesta (visto che la nostra classe dirigente non lo è, o non ha il coraggio di parlare chiaro), e di pensare alle scelte che avrei fatto se qualcuno avesse spiegato tutto questo a me, un po' di anni fa. Considerate che, essendovi preclusa la strada dell'insegnamento (le cose stanno così, e chi sostiene il contrario mente), è proprio inutile frequentare dei corsi universitari di tipo umanistico. Serviranno solo a farvi invecchiare e guardare male dalla gente, che penserà che non fate nulla dal mattino alla sera, che avete scelto quella strada per non lavorare, etc. E non è piacevole. Se davvero credete di poter dare qualcosa di concreto alle scienze umanistiche, andate via, finché siete ancora giovani. Perché all'estero non si è giovani fino a quarant'anni. A trent'anni, all'estero, mentre in Italia ci si arrabatta alla ricerca di assegni di ricerca inesistenti o di contratti di insegnamento da fame, si è già docenti universitari. Un ultimo suggerimento, prezioso: se volete o dovete, per vari motivi, restare in Italia, vi consiglio di farvi conoscere quanto prima in qualche tipo di associazione - parrocchiale, di partito, di volontariato, di qualcosa. Ma non restate nell'ombra della vostra biblioteca, per carità. Pensateci. 

25 agosto 2014

Berlino segreta

La scorsa settimana ho letto il breve romanzo di Franz Hessel Berlino segreta. Hessel (nato a Stettino nel 1880 e morto in Francia, in un campo di internamento, nel 1941; celebre per aver tradotto, insieme a Walter Benjamin, À la recherche du temps perdu di Marcel Proust) è considerato uno dei primi esponenti tedeschi della flânerie, ovvero dello stile di vita del gentiluomo che si dedica al vagabondaggio per le vie della sua città, incurante dell’urgenza frenetica della vita moderna. I risultati di questa Weltanschauung nella scrittura di Hessel sono il saggio Spazieren in Berlin (1929) e, appunto, Heimliches Berlin (1927, Berlino segreta, edito da Elliot Edizioni, che nel giugno del 2014 ha pubblicato anche un'antologia di brani di Hessel intitolata L'arte di andare a passeggio). Il saggio introduttivo, a cura di Eva Banchelli, di Berlino segreta è un ottimo punto di partenza per la “passeggiata” che il lettore intraprenderà insieme a Hessel per le vie di Berlino. In particolare, la curatrice sottolinea lo “sguardo del tutto particolare sulla città, capace di cogliere – al ritmo lento e pensoso dei passi – i segni che il tempo incide nella superficie della quotidianità.” 
Il libro è ambientato nel corso di una giornata primaverile del 1924 e ci accompagna a conoscere i destini di una manciata di berlinesi che affrontano la vita con un certo affanno, sempre intenti ad ambire (nostalgicamente) a qualcosa che, in un modo o nell’altro, sia diverso da ciò che li circonda. “Ho bisogno di andarmene” dice Karola, “andarmene ancora una volta in quello che chiamiamo vasto mondo, libertà e pericolo, prima di arrendermi definitivamente a incarnare i sogni dei miei cari, in attesa, speriamo non troppo lunga, di diventare vecchia.” Ma è vero anche che quei desideri sembrano già intrisi di delusione, e la loro realizzazione pare già contenere il germe di un’altra sofferenza e di un rinnovato bisogno di partire. Parlando del tempo presente governato dai soldi e dal consumismo, ma anche, in senso lato, del convulso anelito di ottenere qualcosa che non si possiede, il filosofo Clemens spiega al giovane Wendelin: “Non hai bisogno di stringere qualcosa in mano, ti si ridurrebbe a grigia cenere del passato tra le dita. Non prendere nulla, altrimenti un giorno finirai per gettarlo via.” 
La precarietà – per non dire la disperazione – economica generata dall’epoca storica in cui si sono trovati a vivere ha fatto di questi personaggi delle creature incerte: incerte nel lavoro, nelle emozioni, nell’identità personale e amorosa. Il loro muoversi su e giù per Berlino parla di un’inquietudine irrisolta che si traduce in costante bisogno di fuga, ed è così che le cavalcate nel Tiergarten, il Castello in Unter den Linden, Friedrichstrasse, i locali affacciati su Kurfürstendamm e le strade che potremmo tranquillamente riconoscere come appartenenti ai quartieri di Charlotteburg o Schöneberg si trasformano in luoghi di espressione dell’insoddisfazione, del senso di disequilibrio e di transitorietà, della fatica di vivere di chi si dedica all'arte, al pensiero e alla cultura – sentimenti che caratterizzano innegabilmente anche questi primi anni del ventunesimo secolo. 
La facciata della Literaturhaus. Foto di Mara Barbuni
Passeggiare a Charlottenburg oggi significa scivolare di nuovo nell’atmosfera elegante e già decadente della Berlino fra le due guerre. Lungo le strade ci si incanta a osservare edifici sontuosi e decine di cinema e di teatri, ristoranti e cabaret che hanno fatto la storia della parte occidentale della città. La via più suggestiva e più ammantata di belle époque è Fasanenstrasse, che ci mostra Villa Grisebach (oggi casa d’aste), con le sue inferriate color verde acqua e le torrette neogotiche, e la splendida Literaturhaus (la “casa della letteratura”), una villa tardo ottocentesca sede di conferenze e reading, con un caffè circondato da eleganti vetrate (perfetto per la pausa di un flâneur), una bellissima libreria e un magnifico giardino immerso nel silenzio, che sa davvero condurci fuori dal tempo.

7 agosto 2014

Viaggio letterario nello Yorskhire. Ultimo capitolo.

Ci sono tre cose che chi visita lo Yorkshire non può assolutamente mancare: Fountains Abbey, un’abbazia cisterciense con annesso giardino d’acqua georgiano e parco dei cervi; una passeggiata tra i campi di lavanda che si estendono fino all’orizzonte segnato dalle colline; un tè da Betty’s – nella tea room di York o di Harrogate – dove io ho potuto assaggiare uno scone con marmellata di fragole e clotted cream e un Ceylon Tea “Blue Sapphire” decorato con fiordalisi. L’incontro con questa straordinaria regione dell’Inghilterra si è concluso con una escursione nella brughiera di Ravenscar, e con due passi a picco sul mare sulle scogliere bianche di Flamborough Head. 
Foto di Mara Barbuni, 2014.
Da lì il nostro programma di viaggio ci ha condotto lungo la strada che uscendo dallo Yorkshire s’imbatte nel suggestivo Castello di Conisborough, per poi entrare nel favoloso Peak District, meta della vacanza di Lizzy Bennet in Orgoglio e pregiudizio. Sfiorando (a malincuore!) il Derbyshire, siamo infine entrati nel trambusto di Manchester. Ciò che non mi aspettavo di trovare in città è stato il fascino incredibile di un complesso museale gratuito che merita davvero una visita. 
Conisborough Castle e Snake Pass, Peak District.
Foto di Mara Barbuni, 2014.
Per chi ha amato Nord e sud, camminare tra i filatoi, passare tra le balle di lana e cotone e ascoltare il fragore delle macchine è una straordinaria esperienza di immedesimazione. Per non parlare del breve tratto sul treno a vapore che percorre la prima linea ferroviaria del mondo, la Manchester-Liverpool! Un vero viaggio nel tempo…. 
84, Plymouth Grove. Foto di Mara Barbuni, 2014.
Ma il motivo principale per cui sono finita in questa città è stata la visita alla casa di Elizabeth Gaskell, al numero 84 di Plymouth Grove, la dimora dove l’Autrice visse con la famiglia dal 1850 fino alla sua morte, abitata dalle sue figlie fino agli inizi del Novecento e poi quasi abbandonata all’incuria fino ad oggi. Il prossimo 5 ottobre, infatti, la casa, restituita al suo splendore grazie al lavoro indefesso di volontari, curatori ed esperti (tra cui il gentilissimo John, che mi ha accompagnata in una visita dell’edificio in anteprima durata più di un’ora), riaprirà al pubblico e consentirà a tutti di conoscere non solo Elizabeth Gaskell ma anche le eminenti personalità che le hanno fatto visita in uno dei periodi più magnifici della storia inglese. 
Manchester fu il centro geografico intorno a cui conversero le vicende personali nonché l’ispirazione letteraria di Gaskell: una brevissima corsa in auto ci ha condotti da Plymouth Grove al villaggio di Knutsford, un vero gioiello, dove l’Autrice trascorse l’infanzia (nella casa della zia Lamb, Heathwaith House, lungo la strada sul margine della brughiera che oggi si chiama Gaskell Avenue) e che prese ad esempio per creare nei suoi libri le cittadine di Cranford e Hollingford (Wives and Daughters). A Knutsford tutto ci ricorda di lei, e sono particolarmente suggestive le incisioni dei titoli dei suoi maggiori romanzi sul lato della torre civica, che ospita anche il busto della scrittrice. Il cimitero della cappella di Brook Street Chapel, infine, ospita il viaggiatore che voglia porgere a Elizabeth Gaskell il suo ultimo saluto.

Sulle tracce di Elizabeth Gaskell a Knutsford. Foto di Mara Barbuni, 2014.

4 agosto 2014

Viaggio letterario nello Yorkshire. Capitolo secondo.

Il margine della brughiera, i campi, Whitby, l'Abbazia e il mare.
Foto di Mara Barbuni, 2014
Il mio viaggio nello Yorkshire è stato anche ispirato dalla ricerca dei luoghi in cui si sono svolte le vicende del romanzo di Elizabeth Gaskell Gli innamorati di Sylvia. L’arrivo a Whitby è stato per questo un momento molto emozionante, perché già dalla strada che attraversava la brughiera è stato possibile cogliere lo sfavillio del mare lontano, e il profilo solenne dell’Abbazia. “Il territorio intorno era per miglia e miglia costituito da brughiera; oltre la superficie del mare torreggiavano le balze purpuree, incoronate alla loro sommità da prati che con lingue verdi scendevano giù verso le pendici della scogliera.” “[Un tempo] su quelle scogliere si ergeva un poderoso monastero, che dominava dall’alto il vasto oceano sfumato nel cielo lontano.”
Quando Elizabeth Gaskell soggiornò
al No. 1 di Abbey Terrace, la padrona
di casa si chiamava Mrs. Rose (lo
stesso cognome di Hester).
La passeggiata è iniziata proprio da Abbey Terrace, dove una blue plaque al civico numero 1 ricorda il soggiorno di Elizabeth Gaskell nel periodo che l’autrice trascorse a Whitby per svolgere le sue ricerche sulla storia della città (e in particolare sui conflitti tra la popolazione e le bande di arruolamento) e sulla caccia alle balene.
Scendendo dalla collina ci si ritrova sul ponte che collega la “città nuova” con la “città vecchia” (come nel romanzo): la parte antica di Whitby è una meraviglia di stradine srotolate tra la stretta di botteghe pittoresche – tra cui quelle del celebre giaietto di Whitby, pietra nera tanto diffusa in età vittoriana – che convergono nella Market Place. È facile immaginare qui le donne di Monkshaven intente a vendere il burro e le uova, come avviene all’inizio del racconto di Gaskell, e la quotidianità della vita coniugale di Sylvia, così obbediente alle convenzioni della neonata classe borghese.
Tra i luoghi più suggestivi della città c’è però senza dubbio la scalinata dei 199 gradini, che conduce non solo all’Abbazia, ma anche alla chiesa e al cimitero di St. Mary; nel capitolo VI, dedicato al funerale del marinaio Darley, Gaskell racconta: “Molti […] anziani uscirono per tempo […] per inerpicarsi sulla lunga fuga di gradini di pietra – consumata dai passi di tante generazioni – che portava alla chiesa parrocchiale, collocata su un’altura sopra la città in un ampio spazio verde in cima alla scogliera, che era l’angolo dove il fiume incontrava il mare, e in questo modo si affacciava sia sulla città affollata […] da una parte, sia sul mare vasto, sconfinato e tranquillo dall’altra – simboli della vita e dell’eternità.” Ed è in questa occasione, e in questo cimitero, che Sylvia e Charley Kinraid si incontrano per la prima volta.
Questa lapide solitaria dietro la chiesa di St. Mary mi ha
ricordato quella del marinaio Darley.
I due giorni successivi sono continuati con una passeggiata a Scarborough (dov’è sepolta Anne Brontë, che venne qui per cercare rimedio alla sua malattia, ma che vi morì pochi giorni dopo l’arrivo), l’erta camminata giù e su per il pittoresco villaggio di Robin’s Hood Bay (“Philip proseguì: ‘Io e Sylvia abbiamo programmato di andare per la nostra passeggiata matrimoniale a Robin Hood’s Bay’”), e un’incredibile rincorsa al treno a vapore della North Yorkshire Moor Railway, che abbiamo poi visto passare con possenti sbuffi e aspri cigolii per Goathland (la stazione di Hogmeads nei film di Harry Potter) e Pickering, stupenda stazioncina in stile Anni Trenta.
È seguita la visita “a casa” delle sorelle Brontë, nel Parsonage Museum che domina il villaggio di Haworth.

Haworth, Bronte Parsonage Museum. Foto di Mara Barbuni, 2014

Il rettorato di Mr. Brontë è un edificio a due piani: si possono visitare lo studio, il salotto dove le figlie scrivevano, e le camere da letto: purtroppo la vista della brughiera, di cui gli abitanti potevano godere dalle finestre al piano di sopra, è oggi impedita, perché ostacolata dall'edificio che ospita gli uffici amministrativi del Parsonage Museum. In generale, sebbene la casa sia molto bella e l'esposizione della raccolta di oggetti appartenenti alla scrittrici molto interessante, direi che il luogo non è conservato come mi aspettavo e come si dovrebbe. A mio parere sarebbe necessario far entrare i visitatori a piccoli gruppi contati, e non tutti insieme, e richiedere di mantenere un po' di silenzio. È stato molto bizzarro sentire tanta confusione nelle stanze di donne che trascorsero la loro esistenza nella morsa di una quiete talvolta spettrale; e di certo si può affermare che, se non fosse stato per quel terribile silenzio, interrotto solo dallo stormire degli alberi o dalle raffiche di vento, un capolavoro come Cime tempestose non sarebbe mai venuto alla luce.



Per leggere la prima parte del mio viaggio letterario: http://ipsalegit.blogspot.it/2014/07/viaggio-letterario-nello-yorkshire.html. Per leggere la terza e ultima tappa: http://ipsalegit.blogspot.de/2014/08/viaggio-letterario-nello-yorskhire.html E per ullteriori immagini, visitate il sito: https://ipsalegit.exposure.co/yorkshire-travelogue.

31 luglio 2014

Viaggio letterario nello Yorkshire. Capitolo primo.

Trovo che “vacanza” e “viaggio” siano due termini dal significato molto diverso. La “vacanza”, come dice la parola stessa, implica uno svuotamento, una fase di liberazione e di sgombero; il “viaggio”, invece, ha il compito di riempire, di arricchire, di colmare le lacune, di nutrire la conoscenza e stimolare le sensazioni. Per questa ragione posso dire di non essere appena tornata dalle vacanze, ma di aver compiuto un viaggio. Ed è stato un viaggio di grande bellezza, perché infarcito (a proposito del “riempire”) di riferimenti letterari: le case dei grandi autori, i panorami contemplati dai loro personaggi, le rappresentazioni di modi di vivere antichi che mi hanno fatta sentire veramente “dentro i libri”. 
Hadrian's Wall. Foto di Mara Barbuni, 2014.
Anche se inteso come un tour dello Yorkshire (Nordest dell’Inghilterra), il viaggio è iniziato a Newcastle (aeroporto di arrivo) per spostarsi subito a visitare il vallo di Adriano, luogo che farebbe tremare le vene dei polsi agli amanti della saga Game of Thrones ma anche a chi, come me, ha letto tanti anni fa la serie Excalibur di Bernard Cromwell – storia dei conflitti tra Britanni, Sassoni e Romani all’epoca di Merlino e Re Artù. I prati intorno al vallo (io ho visto in particolare il tratto corrispondente al Forte di Housesteads) effondono tutta la bellezza dell’Inghilterra: i suoi colori pastello, la dolcezza dei contorni, la regolarità un po’ blanda dei confini di pietra tra un appezzamento e l’altro, mentre la voce della Storia si intona con quella delle querce e dei castagni scossi dal vento. 
Dove Cottage. Foto di Mara Barbuni, 2014.
Il giorno successivo, l’unico piovoso, è stato dedicato a un angolino di Lake District, in Cumbria – forse il più suggestivo: il Dove Cottage dove vissero William e Dorothy Wordsworth. Il biglietto d’ingresso ha compreso la visita al cottage (con guida gratuita) e l’accesso al Wordsworth Museum, dove si possono ammirare vari memorabilia, libri, lettere, dipinti, ma soprattutto si possono ascoltare le letture dei brani più rappresentativi della poesia di William e dei diari di Dorothy. 
Il tour dello Yorkshire è iniziato dal capoluogo della contea, la bellissima York, stretta tra le maglie fitte di stradine anguste ed edifici in pietra. Prima tappa: lo Shambles, una via antichissima ricca di negozi e botteghe, ma soprattutto di insegne molto pittoresche. La visita allo York Castle Museum è interessantissima, un vero tuffo nella storia, grazie alla ricostruzione fedele di una strada vittoriana (con i suoi rumori, i suoi odori, le sue ombre, i saluti dei figuranti che si toccano il cilindro chiamandoti “madam”) e alla mostra temporanea 1914 dedicata all’inizio della prima guerra mondiale e alla vita nel corso del conflitto. 
York Minster e National Railway Museum.
Foto di Mara Barbuni, 2014.
Per chiudere la visita alla città, ingresso nella sontuosa cattedrale, che in quel momento accoglieva decine di reduci dallo sbarco in Normandia (solo guardarli metteva i brividi, con quelle giacche letteralmente strattonate dalle medaglie) e infine due passi  nel mondo delle ferrovie al National Railway Museum. Quest’ultima è stata veramente un’esperienza magica, compiuta tra le locomotive a vapore più celebri della storia d’Inghilterra: da quelle che trasportavano i Reali alle velocissime Mallard (di colore azzurro) e Dutchess of Hamilton (rossa bordeaux). 

8 luglio 2014

Mr. Penumbra's 24-hour Bookstore

Foto di Mara Barbuni (2014)
Dopo tanto tempo ho comprato un libro di carta. Ed è stato curioso scoprire che la storia narrata trattava proprio del rapporto tra volumi del passato e prodotti stampati del presente, e del delicato passaggio da "odore di libri" a scanner digitale ed ebook. 
Ma partiamo dall'inizio. Il romanzo di Robin Sloan Mr. Penumbra's 24-hour Bookstore, tradotto in italiano per Corbaccio con il titolo Il segreto della libreria sempre aperta (perché se non ci si mette un segreto, in questi titoli...!) è la storia di un designer di belle promesse, ormai disoccupato, che trova un impiego notturno in una libreria aperta ventiquattr'ore su ventiquattro. L'idea iniziale è certo accattivante, e tutta la prima metà della narrazione esaudisce bene le attese del lettore bibliofilo che non vede l'ora di affondare in storie che parlano di libri. Il "bookstore" è misterioso e attraente; il buio delle ore di turno del protagonista aggiunge suggestione al contesto; i personaggi che si alternano davanti al bancone del negozio sono sufficientemente strambi da solleticare la nostra curiosità, e il divieto imposto al libraio di consultare i volumi aggiunge enfasi al ritmo del racconto. Anche il continuo spostamento - spaziale e filosofico - tra la libreria e il mondo incantato di Google (proprio la sede della compagnia, dove alla mensa dei dipendenti si consumano addirittura cibi ipervitaminizzati - e non credo questa sia finzione...) è interessante, e ha un po' l'effetto di rappresentare la dimensione binaria e ormai ineludibile nella quale stiamo vivendo: tra tradizione e avanguardia, classicità e futurismo, carta e digitale, conoscenza mnemonica e consultazione web. Fin qui tutto bene.
E poi, a un certo punto, il meccanismo si è inceppato, e poco dopo la metà del libro ho cominciato ad annoiarmi. Sarà stato l'abbandono della libreria di San Francisco a favore di un oscuro sotterraneo di New York, sarà stata la scelta di affiancare all'io narrante, nel corso della sua quest, altri personaggi, o il riferimento a tonache nere che hanno evocato un mondo harrypottiano (harrypottesco?), sarà stata l'invenzione di un enigma ben presentato, che poi si è risolto quasi con una morale, invece che un colpo di teatro? 
Insomma, l'entusiasmo è scemato e, lo ammetto, ho iniziato a leggere una frase per pagina. Peccato che tra un salto e l'altro la storia non dava l'impressione di procedere granché. Il finale, che ho voluto leggere interamente, mi è apparso scialbo e il dénouement poco convincente.
Che peccato! Qualcuno di voi ha letto il libro e ha voglia di lasciarmi la sua opinione? 

24 giugno 2014

Gli innamorati di Sylvia

Gli innamorati di Sylvia, Jo March, 2014
Traduzione italiana di Mara Barbuni
Gli innamorati di Sylvia (titolo originale: Sylvia’s Lovers) fu pubblicato in tre volumi nel 1863, dopo innumerevoli ripensamenti e ininterrotte revisioni. Il romanzo è ambientato alla fine del diciottesimo secolo a Monkshaven, una città fittizia (corrispondente a Whitby) sulle coste dello Yorkshire, separata dal resto dell’Inghilterra dalle brughiere e dal mare. Il suo isolamento e il suo carattere “anfibio” (dipende per la sua ricchezza dalla caccia alle balene, ma vive dei prodotti della terra, ed è per questo che Gaskell la definisce “un microcosmo inglese”) sono caratteristiche che pervadono l’intero romanzo. Il senso di lontananza nello spazio e nel tempo gioca un ruolo fondamentale nello sviluppo della storia, che appare necessariamente legata a quelle coste settentrionali battute dal vento e alle vicissitudini della guerra contro la Francia rivoluzionaria.
Gaskell menziona con molta frequenza le particolarità delle popolazioni del Nord, che a suo modo di vedere sono caratterizzate da una straordinaria forza d’animo, talvolta estremizzata in un’aggressività quasi bestiale. Questo suo approccio, che potremmo definire “storicista”, investe Gli innamorati di Sylvia, perché il libro si occupa non solo delle contingenze storiche – l’arruolamento forzoso e le sue conseguenze sulla popolazione – ma anche e soprattutto del problema antropologico della forza disordinata della passioni umane. La particolare irruenza del carattere e la sbrigliatezza di emozioni distruttive sono determinate, secondo l’autrice, proprio dall’ambientazione geografica della storia: le scogliere dello Yorkshire, così scabre, a picco su un mare spesso tempestoso, sono brulle, crude, battute dalla “rude violenza del vento che spazzava quei luoghi deserti e selvaggi sia d’estate che d’inverno”. La personalità della gente non può che essere influenzata da un simile paesaggio.
La coscrizione obbligatoria e l’arruolamento forzoso, contro cui, narra Gaskell, le genti del Nord pensavano solo a “resistere”, a differenza delle popolazioni meridionali che tentarono una più docile convivenza, furono istituiti in Gran Bretagna per rimpolpare le truppe impegnate a combattere contro gli eserciti francesi. Anche se il suolo britannico non fu mai toccato dal nemico, tuttavia quel conflitto influenzò aspramente la vita quotidiana della popolazione, perché prelevava dalle case della gente mariti, figli e padri di famiglia. Gli innamorati di Sylvia non racconta la Storia fatta dai re o dai generali, ma la storia della gente comune; e l’autrice, che per tutta la vita si prodigò nella difesa dei più sfortunati, si dedica in particolare a descrivere gli abusi di potere perpetrati dalle bande di coscrizione a danno dei marinai e dei contadini, e di come tali abusi risvegliassero l’odio delle classi sociali più umili. A un certo punto della vicenda il rapimento dei marinai da baleniera operato dalla banda di arruolamento fa scoccare la scintilla di una rivolta popolare: e la tragedia degli umili si rivela causa ed effetto del feroce scontro tra l’individuo e l’autorità, diventando dunque il motore delle disgrazie della protagonista.
La centralità del personaggio di Sylvia non è dovuta solo alle sue tragedie, ma dipende anche dal suo essere una rappresentazione dell’intero spirito di Monkshaven. Come la sua città, Sylvia è una creatura anfibia, cresciuta in una fattoria sulle colline eppure capace di percepire la vastità del mare come il proprio elemento. Il suo destino si intreccia a quello dei cacciatori di balene e a quello dei commercianti, ovvero ai due diversi gruppi protagonisti della vita economica di Monkshaven; e come molte sue concittadine ella deve sopportare il dolore dell'abbandono causato dalla guerra. La sua trasformazione da ragazzina limpida e vivace a donna infelice fa di lei la rappresentante di un femminismo particolare, anche questo in qualche modo "storico", perché reclama il diritto delle donne dello Yorkshire, fustigato dalla coscrizione obbligatoria, ad amare e odiare appassionatamente, a desiderare la vendetta, a promettere l’impossibilità del perdono.
Proprio l’incapacità di perdonare è il peccato di cui si macchia questa eroina gaskelliana. Gli innamorati di Sylvia non è solo un romanzo storico, ma anche un ritratto antropologico e una storia imbevuta di spiritualità. La religiosità è intesa qui come un percorso che inizia dal peccato e, attraverso il pentimento e l’espiazione, finalmente raggiunge la salvezza. Di questo particolare aspetto dell'esistenza umana si fa rappresentante Philip Hepburn, un personaggio fortemente moderno, che si rivela protagonista dell’intera vicenda in virtù di un tormento interiore dolorosissimo, di dubbi continui, di paure, di cadute nella disperazione, di laceranti compromessi con la sua coscienza. I suoi pensieri sono riportati in molti e lunghi passi del romanzo come uno stream of consciousness novecentesco che fanno di lui un vero anti-eroe, una figura vicina forse più delle altre alla sensibilità contemporanea. Anche per questo la sua redenzione finale ha una cruciale valenza catartica: al contrario, alla fine del libro, Sylvia, la donna piena di passione che ha accompagnato il lettore lungo tutta la storia è resa muta dal dolore e si trasforma nella protagonista di una leggenda destinata a essere rimandata ai posteri. 
Foto di Mara Barbuni (2014)
I protagonisti di questo libro non sono solo Sylvia e i suoi due innamorati. Il mare ne è infatti un personaggio predominante, una creatura quasi viva che accompagna con la sua presenza incombente tutto lo sviluppo della storia. Elizabeth Gaskell fa riferimento al mare in molte delle sue opere. In Mary Barton il marinaio Wilson racconta i suoi viaggi avventurosi nel Pacifico; Ruth incontra il suo antico amante sulla spiaggia; in Cranford il fratello di Miss Matty è richiamato da un esilio volontario in India; in Nord e sud il fratello di Margaret, Frederick Hale, è accusato di ammutinamento; e in Mogli e figlie Roger Hamley parte per una spedizione scientifica in Africa. Ma in nessuna di queste opere il mare si sente ruggire come in Gli innamorati di Sylvia. La sua esistenza è reale e tangibile in quasi ogni pagina. La popolazione avverte la sua vicinanza anche quando è nascosto dalla nebbia, e fin dall’inizio del romanzo il lettore è reso consapevole della sua dirompenza.
Il senso di ambiguità che pervade l’intero romanzo è riflesso nel ruolo duplice del mare. Il mare è sia luogo proteiforme, di creazione e di ricchezza, sia veicolo di tragedia e di distruzione; è il luogo dell’amore e della morte, della lotta perpetua tra bene e male, e dunque è elemento di eternità, sempre avvolto nel mistero. L’infinità varietà del mare è rappresentata nel libro attraverso tre diversi ambienti. Il primo è quello iniziale, il centro geografico della storia, ovvero la foce del fiume Esk che si getta nell’“Oceano tedesco” (il Mare del Nord), il secondo è quello ghiacciato, pericoloso e leggendario della Groenlandia, e il terzo è l’esotico Mar Mediterraneo.
Notiamo che ciascuno di questi tre ambienti corrisponde a uno dei personaggi principali. Le acque che lambiscono Monkshaven significano casa, patria e focolare, ossia il luogo dove Sylvia trascorre tutta la vita. I mari artici sono il teatro delle imprese di Kinraid, e il Mediterraneo è la distesa che Philip attraversa in cerca di redenzione. Il mare di Monkshaven è spesso caratterizzato da luce e vivacità, da flotte di navi ammassate nel porto e di gente sul molo, dal lavoro incessante dei marinai e dall’operosità delle loro donne. Le acque della Groenlandia sono invece deserte, piatte come un pavimento di zaffiro, interrotte solo da giganteschi iceberg che riflettono il sole e assumono sembianze bestiali anche prima che il vero mostro, la balena, faccia la sua comparsa in superficie. L’idea che evocano, di forza, energia, impavidità, contrasta con la calma quasi sonnolenta del Mediterraneo, dove i colori, i profumi e l’opulenza della vegetazione orientale obnubilano la mente del lettore e lo fanno scivolare in uno stato onirico simile a quello del regno di Kubla Khan di Coleridge.
Se è vero che gli innamorati di Sylvia sono due, Charley e Philip, è vero anche che con il mare la protagonista stringe un rapporto molto intimo e quasi enigmatico. La sua femminilità inizia a svegliarsi proprio in concomitanza con la sua esperienza del mare, poiché quando la storia comincia, la ragazza sta andando al mercato vicino al porto a comprare della stoffa per farsi un mantello nuovo, e la stoffa che vuole comprare è, simbolicamente, rosso scarlatto – una scelta che contrasta sia con la volontà della madre, sia con quella del cugino Philip, che vede Sylvia ancora come una “tenera, graziosa colomba”. È l’arrivo di Charley Kinraid a completare la formazione sensuale della ragazza, mentre Philip tenta di esercitare su di lei un’istanza protettiva di retaggio patriarcale che intende privarla del suo status di donna adulta. Spesso Sylvia sente il bisogno di fuggire dal suo salotto per cercare di nuovo la vista del mare: lì il sole e le onde le ricordano la sua identità; sola, libera, con i capelli sciolti, ella ritorna ad essere la creatura “silvana” della sua giovinezza. Quando è di fronte all’acqua, Sylvia ritrova la sua pace, perché, specialmente quando il mare è in tempesta, può intuire se stessa in armonia con quel frastuono, con quella vitalità irrefrenabile, e con quei lunghi ululati che rievocano rimpianto e lontananza.