13 dicembre 2013

Sherlock Holmes nella Casa della Seta

Tutti gli appassionati di Sherlock Holmes lo sanno e aspettano con trepidazione: il 1 gennaio su BBC One comincia la terza stagione di Sherlock, la serie che finalmente ha dato al celeberrimo detective di Conan Doyle una vitalità ben definita, elegante, dignitosa, e ben aderente alla genialità del personaggio letterario. Se a pensare a Sherlock Holmes sullo schermo vi vengono in mente la serie della CBS Elementary (in cui un bravo Jonny Lee Miller dà il volto a uno Sherlock devastato dagli stupefacenti residente a New York e Watson è - terrificante - una donna) o, peggio ancora, i due film di Guy Ritchie con Robert Downey Jr. e Jude Law (che però è un dottor Watson fedele alla rappresentazione che ne danno i romanzi di Conan Doyle), in cui la straordinaria intelligenza del detective è oscurata dalle improbabili carambole di un film d'azione in costume, andatevi a cercare Sherlock, il cui valore narrativo, di regia e di interpretazione è davvero insuperabile.
Basti dire che ogni episodio è una modernizzazione di un racconto/romanzo di Holmes, che recupera le simbologie e gli elementi più forti dell'opera letteraria e rielaborandoli senza mai tradirli costruisce un impianto sorprendente e tutto nuovo (tanto per dire, Watson, che come il suo antenato è stato ferito in Afghanistan - corsi e ricorsi storici... - non scrive libri, ma tiene un blog). Il solo aspetto che si discosta nettamente da Conan Doyle è l'insistita presenza di Moriarty, che la scrittura ha portato sulla scena una volta sola, mentre nella serie è un personaggio incombente, ricorrente, anche solo per sottintesi (ma l'attore che lo interpreta è talmente talentuoso che perdoniamo agli autori questa libertà!).
Insomma, in "onore" della ripresa, attesissima da tutti, di questa serie, ho letto negli ultimi giorni The House of Silk (La casa della seta, trad. it. Mondadori, 2012) di Anthony Horowitz, il primo autore contemporaneo - già famoso giallista - cui la Conan Doyle Estate Ltd., che detiene i diritti d'autore sul personaggio, abbia consentito di scrivere un libro con Sherlock Holmes come protagonista. Premesso che raggiungere le altezze di Arthur Conan Doyle è praticamente impossibile, il libro si distingue per alcuni aspetti positivi: il detective è rappresentato abbastanza bene, e il soffermarsi sul lato umano del suo carattere non ne disturba la figura sempre algida e brillante; Watson, che come da tradizione scrive in prima persona, è un carattere appassionato, pieno di dubbi e di contraddizioni, di paure, di speranze e di rimpianti che ne fanno un perfetto uomo tardo-vittoriano; l'inglese è semplicemente bellissimo; Londra è dipinta meravigliosamente, soprattutto negli angoli ombrosi che l'hanno resa un simbolo del gotico fin-de-siècle:
"Un corvo nero e cencioso era appollaiato sul ramo di un albero, ma non c'era altro segno di vita. La luce stava scemando rapidamente, eppure le lampade non erano ancora state accese e io avvertivo un senso di ombre dentro le ombre, di un mondo quasi privo di qualunque colore"; "La prigione era di stile gotico; alla prima occhiata appariva come un castello dalla forma irregolare, minacciosa, come uscito da una fiaba scritta per un bambino malvagio. [...] consisteva di una serie di torrette e comignoli, pennoni e mura merlate, con una sola torre che si slanciava verso l'alto e sembrava quasi sparire dentro le nuvole". (Qui e altrove le traduzioni dall'inglese sono mie.)
Cionondimeno la struttura narrativa, bisogna ammetterlo, è un po' confusa: lo schema di fondo che mi è parso di scorgere, quello cioè di una costruzione a "scatole cinesi" (una trama che si incastra dentro un'altra), non è gestito troppo sapientemente, e si ha come la sensazione che l'autore abbia a un certo punto cambiato idea e abbia iniziato a raccontare un'altra storia - anche se poi alla fine i fili si riuniscono e al lettore sono offerte soluzioni a tutti gli enigmi. In conclusione, la caratteristica più meritevole di questo romanzo è un passo di metafiction in cui Watson dà voce a una interessante riflessione sulla propria attività letteraria, sulla forza dei propri principi morali e sull'eguaglianza degli esseri umani nel momento del disastro: "E' curioso pensare oggi, proprio alla fine della mia carriera di scrittore, che ognuna delle mie cronache è terminata con lo smascheramento o l'arresto dei criminali, e che dopo quel punto, quasi senza eccezione, io ho semplicemente presunto che il loro destino non sarebbe più interessato ai miei lettori e li ho abbandonati, come se solo la condotta illecita avesse giustificato la loro esistenza e come se, una volta risolto il caso, questi non fossero più esseri umani con un cuore sofferente e uno spirito distrutto. Non ho mai una sola volta preso in considerazione la paura e l'angoscia che essi devono aver provato attraversando le porte a vento [della prigione] e percorrendo i suoi cupi corridoi. Qualcuno di loro ha mai pianto lacrime di pentimento, ha mai pregato per ottenere la salvezza? Qualcuno di loro è mai fuggito? A me non interessava. Non faceva parte della mia narrazione."