19 novembre 2012

Elizabeth von Arnim

Negli ultimi tempi, in libreria, è facile trovare le opere ripubblicate di fresco di una romanziera dimenticata per decenni e ora finalmente e meritatamente riportata agli onori del successo. Parlo di Elizabeth von Arnim. Molti sostengono – e non si può non essere d’accordo – che il recupero della narrativa di von Arnim sia stato determinato e alimentato dall’improvvisa fama che il primo ventennio del Novecento sta conoscendo grazie alla serie televisiva Downton Abbey. In uno degli episodi della seconda serie il valletto dell’eroe maschile della storia, Matthew Crawley, presta ad Anna, di cui è innamorato, Elizabeth and Her German Garden, e pare che per molti fan questo dettaglio abbia costituito un fortissimo richiamo alla lettura. 
La mia personale ammirazione per Elizabeth von Arnim, invece, è sorta dalla visione del film e poi dalla lettura di Un incantevole aprile (ne ho parlato qui), e la storia, e la scrittura, mi sono piaciute così tanto che oggi, in libreria, trovo irresistibili gli inviti delle bellissime copertine che Bollati Boringhieri ha riservato a Il circolo delle ingrate (The Benefactress), Uno chalet tutto per me (In the Mountains, che sto per iniziare) e La fattoria dei gelsomini (The Jasmine Farm). Non è un caso forse che alcuni critici giudichino lo stile di von Arnim come una rievocazione novecentesca dei toni di Jane Austen, della sua arguzia, della sua ironia, della sua brillantezza. 


Elizabeth von Arnim nacque nel 1866 in Australia, con il nome Mary Annette Beauchamp (era la cugina di Kathleen Beauchamp, conosciuta al grande pubblico come Katherine Mansfield); crebbe però in Inghilterra, dove il padre fu un ricco commerciante. Nel 1891, durante una vacanza in Italia, Mary incontrò il Conte prussiano Henning August von Arnim-Schlagenthin, che divenne presto suo marito. La coppia si trasferì in Pomerania, ebbe cinque figli (uno dei loro tutori fu niente meno che Edward Morgan Forster), ma presto il legame si deteriorò, a causa del carattere iracondo del Conte, che poi si ritrovò persino in carcere per frode. Fu in quel periodo, con lo scopo di guadagnare denaro, che iniziò l’attività letteraria di Elizabeth: il suo primo romanzo, ampiamente autobiografico e satirico, è proprio Elizabeth and Her German Garden (1898), un vero e proprio bestseller di inizio secolo (ragion per cui, secondo le parole degli autori, ha fatto la sua comparsa in Downton). Seguirono The Solitary Summer (1899), The Benefactress (1902), Vera (1921) e Love, tutti in un modo o nell’altro autobiografici.
Elizabeth rimase vedova nel 1910; per tre anni ebbe una relazione con H. G. Wells, e nel 1916 contrasse matrimonio con John Francis Stanley Russell, fratello maggiore del celebre filosofo. Nemmeno questa esperienza conobbe un lieto fine, tanto che la coppia si separò ed Elizabeth si trasferì negli Stati Uniti. Morì a Charleston nel 1941, dopo aver pubblicato ben 21 romanzi, tutti accomunati dalla presenza dei fiori, o di un giardino.
Se leggete in inglese, gutenberg.org è una fonte inestimabile di ebook gratuiti di von Armin: io ne ho scaricati undici, e quello con cui voglio cominciare è proprio In the Mountains. Come al solito, ne avrete presto un commento!

12 novembre 2012

Confessions of a Jane Austen Addict

Ho nominato una delle cartelle nel mio Kindle “Jane Austen e dintorni”. Essa contiene, oltre a The Complete Collection dell’opera della mia cara autrice, il Memoir del nipote Edward Austen Leigh e romanzi che, in un modo o nell’altro, possono essere considerati degli spin-off delle storie di Jane. Compaiono qui tutti i romanzi di Stephanie Barron, Death Comes to Pemberley di P.D. James e tre ebook che ho scaricato di recente, approfittando di imperdibili promozioni online. Non ho ancora letto The Dashwood Sisters Tell All di Beth Pattillo (un’autrice che si è dedicata a numerosi esperimenti di rielaborazioni dei soggetti austeniani), né Searching for Captain Wentworth di Jane Odiwe, ma proprio poco fa ho terminato Confessions of a Jane Austen Addict di Laurie Viera Rigler. 
Questo libro (titolo italiano, del tutto inspiegabile, Shopping con Jane Austen, Sperling&Kupfer) è stato una vera sorpresa, perché per quanto molto particolare, racconta una riuscita commistione tra diario e rievocazione storica. La protagonista/io narrante, Courtney Stone, è una giovane janeite di Los Angeles (reduce dalla scoperta del tradimento da parte del suo futuro sposo) che una mattina si sveglia in un letto di inizio Ottocento, nella dimora inglese di una famiglia ricca e altolocata e con il nuovo nome di Jane Mansfield. Scartata l’ipotesi che si tratti di un sogno, Courtney sprofonda lentamente nella sua nuova identità, scontrandosi con un passato che non ricorda e con un mondo sorretto da infinite regole di comportamento che lei non conosce, se non per le sue letture dei libri di Jane Austen.
La storia è scritta bene, ma è soprattutto divertentissima, poiché mette tutte noi appassionate austeniane (che in fondo al cuore desideriamo di essere nate nella sua epoca e non nella nostra) di fronte alla dura realtà della vita quotidiana di duecento anni fa: la mancanza assoluta di igiene, le tecniche mediche più spaventose e pericolose – la protagonista subisce un salasso –, i pregiudizi capaci di privare una donna di qualsiasi tipo di libertà. Eppure, in mezzo a tutto questo ripugnante ritratto del passato (la descrizione dello stato dei malati immersi nelle “salvifiche” acque termali di Bath è a dir poco raccapricciante!), fanno capolino le irrefrenabili sensazioni della quiete, della calma, del silenzio dei ritmi vitali dell’epoca: “Non ho nel cervello il rumore costante di Internet, dell’iPod, dei segnali radio che mi riempiono la coscienza di suoni, parole e immagini in ogni momento di veglia di ogni singolo giorno. Non avevo mai notato questo rumore fino a che non mi sono resa conto di non sentirlo più.” Bellissimo è in particolare il momento in cui la narratrice racconta dell’attività del ricamo, una sequenza di movimenti veloci e impercettibili che riescono ad occupare la mente in totalità, allontanando le angosce e riportando tanta calma nel cuore.
William Wallace Gilchrist, Girl Sewing. The Party Dress. Collezione privata.
Fonte: www.the-athaneum.org
La passione per Jane Austen è forse il tema principale, sicuramente il movente del racconto; simpatiche e molto familiari per i janeites sono osservazioni come:
“Mi curerei con Jane Austen, la mia droga numero uno, la mia compagna costante per ogni momento di sconforto, ogni delusione, ogni crisi. Gli uomini vanno e vengono, ma Jane Austen era sempre lì. In salute e in malattia, in ricchezza e povertà, finché morte non ci separi. E così mi accoccolai nel letto con Elizabeth e Darcy e lessi finché le parole conosciute mi cullarono in calma, pace e armonia.”
“Nessuno dei miei amici sa che l’ultimo bestseller che mi hanno regalato per Natale o per il mio compleanno è stato come al solito messo da parte perché avevo bisogno di tornare per la ventesima volta a Orgoglio e pregiudizio o Ragione e sentimento.”
“Non ci voglio pensare. Non voglio. Leggerò Orgoglio e pregiudizio. Lo aprirò a caso per avere una guida e un po’ di saggezza. […] E mi conforto all’istante. Se Lizzy è potuta tornare a casa, e tutto poi è finito bene per lei, allora c’è speranza anche per me.”
“Non riesco ad immaginare un mondo in cui qualcuno possa leggere Jane Austen una volta sola.”
Epocale è poi l’incontro con la stessa scrittrice, nel negozio di una modista londinese….
Ma l’aspetto che mi ha colpito maggiormente di questa storia, che mi aspettavo decisamente più frivola, non così accurata, né così divertente, sono le considerazioni che la narratrice fa a proposito dell’esperienza che sta vivendo. Ella si domanda se stia viaggiando nel tempo, resta scioccata quando si accorge di avere nella mente i ricordi della sua alter ego ottocentesca, si chiede se qualcun altro stia vivendo la sua vita americana, si preoccupa costantemente di come fare a tornare nella “sua” realtà fino a quando non si rende conto che sta cominciando a parlare, a pensare, a danzare, a sentire come una donna del diciannovesimo secolo. Straordinario è poi quando le viene raccontato che anche la “vera” Jane Mansfield era una donna strana, con strane visioni del futuro…. Ma mi fermo qui: rispetto al mio solito, ho già raccontato abbastanza!
Il meccanismo di sostituzione tra Courtney e Jane Mansfield risulta ovviamente inspiegabile da un punto di vista razionale: la narratrice lo descrive “come una farfalla le cui ali sono troppo fragili per essere toccate”. E io ho avuto l’impressione che stesse parlando della forza più grande, più potente e più confortante di tutte: la forza dell’immaginazione. 


3 novembre 2012

Una splendida lettura

Oggi sono una lettrice contenta.
Ho appena terminato l’ultimo romanzo di Kate Morton, The Secret Keeper, uscito sul mercato anglosassone a metà ottobre e atteso con tanta impazienza e curiosità. Ho incontrato per la prima volta questa straordinaria scrittrice australiana quando cinque anni fa ho acquistato, nella libreria Waterstone’s di Wells (Somersetshire), la sua opera prima, The House at Riverton. Questo libro, di cui ho già parlato in più d’uno dei miei post (cliccate qui), è stato ripubblicato recentemente in italiano da Sonzogno. Nel 2009 mi sono poi imbattuta nel secondo romanzo di Morton, The Forgotten Garden, in una suggestiva libreria ai piedi del vulcano che accoglie il Castello di Edimburgo (la traduzione italiana, Il giardino dei segreti, è edita da Sperling&Kupfer); infine, The Distant Hours, del 2010 (tradotto per Sperling&Kupfer in Una lontana follia, cliccate qui), è stato un grande libro, nel quale l’autrice ha iniziato l’esplorazione di quello spazio storico, indubbiamente ricchissimo di suggestioni narrative, rappresentato dalla seconda guerra mondiale.


The Secret Keeper entra nel vivo di questo contesto, poiché la sua parte centrale è ambientata nella Londra ferita e piagata dai bombardamenti nazisti, e tutti i personaggi che abitano il tempo presente di questa storia subiscono in qualche modo le conseguenze di quell’epoca e dei suoi avvenimenti.
Com’è mia abitudine, non rivelerò i tratti salienti della trama: mi voglio limitare a dire che questo libro narra di tanti tipi d’amore, di tanti tipi di sofferenza e di tanti tipi di catarsi. È la storia di Laurel Nicolson, un’attrice da Oscar che in occasione degli ultimi giorni di vita della mamma novantenne intraprende una ricerca nel suo passato che la porterà a scoprire segreti profondissimi, a scardinare tante certezze e a conoscere un’“altra vita” della madre, spesa sullo sfondo della miseria e degli incendi della capitale investita dal Blitz.
Una fra le più emblematiche immagini del Blitz su Londra:
la cattedrale di St. Paul sopravvive ai bombardamenti
del 29 dicembre 1940
I colpi di scena si susseguono fino all’ultima pagina, ma la capacità di gestire la suspense è solo una delle straordinarie qualità della scrittrice, che anche in questo libro, come nei suoi precedenti, sa governare con maestria l’alternanza di numerosi e diversi piani temporali e si dedica con intensità alla disamina di quelli che sembrano essere ormai i suoi temi più cari. La relazione tra il presente e il passato è forse quello più importante, e viene sempre trattato nella convinzione che ciò che oggi “è” è sempre e inevitabilmente il risultato di ciò che “è stato”. Il potere del ricordo è dunque preponderante in tutte le narrazioni di Morton (che tutte contengono a volte teneri a volte inquietanti ritorni all’infanzia – The Distant Hours è l’esempio più eclatante di questo aspetto), è spesso reso visibile da echi di voci e di musiche distanti, e ad esso si accompagna la quasi necessità del segreto, e l’urgenza del suo disvelamento. Il processo di scavo a ritroso nel tempo porta ogni volta con sé un richiamo alla messa in discussione della propria identità e alla revisione dei rapporti familiari (ecco di nuovo l’importanza dell’infanzia come momento cruciale per la formazione del proprio essere al futuro – traduco da The Secret Keeper: “Il paesaggio dell’infanzia era più vibrante di ogni altro. Non importava dove si collocasse o quale fosse il suo aspetto, le sue visioni e i suoi suoni si imprimevano in modo diverso da quelli incontrati più in là [nella vita]”). E spesso tale viaggio nel passato è stimolato dalla presenza di oggetti di forte valore emotivo e di grande importanza ai fini del racconto, quasi degli oggetti magici (libri, fotografie, gioielli, …) che sembrano quasi contenere in se stessi la soluzione agli enigmi e l’apertura verso la verità. 
Fonte: http://favim.com/image/142641/
I libri di Kate Morton sono, a mio parere, qualcosa in più di storie misteriose di segreti di famiglia. Sono tutti esperimenti molto buoni di descrizione dei pensieri e dell’evoluzione psicologica dei personaggi – e sotto questo aspetto The Secret Keeper è forse il più maturo del quartetto. Sono tante le citazioni che vorrei riportare, per far sentire la cura, l’intelligenza, l’altissima qualità della scrittura, il lessico scelto con sapienza e l’intensità e la dolcezza di certe descrizioni, di certe ambientazioni e di certe metafore. Ne riporto solo una, sperando che la mia traduzione si avvicini anche solo un po’ alla bellezza dell’originale:
“Il bush [paesaggio di boschi e prateria tipico dell’Australia, simbolo di uno spazio sconfinato ed inesplorato molto importante nelle espressioni artistiche e letterarie di quel Paese] era vivo: gli alberi parlavano l’uno con l’altro con vecchie voci di pergamena, migliaia di occhi invisibili ammiccavano dai rami e dai ceppi caduti, e Vivien sapeva che se si fosse fermata e avesse premuto l’orecchio sul duro suolo avrebbe sentito la terra chiamarla, cantando i suoni dei tempi antichi.”
Quando si incontrano libri come questi, scritti in questo modo… è così che si diventa dei lettori contenti.