30 agosto 2012

84 Charing Cross Road

Una dichiarazione d'amore ai libri. Questo è il capolavoro che ho letto negli ultimi due giorni, 84 Charing Cross Road di Helene Hanff. Se siete innamorati della lettura, se siete tra coloro che una volta entrati in libreria potreste non volerne più uscire, se nel vostro appartamento i libri nascondono le pareti, se a Natale regalate solo romanzi, se in pausa pranzo tirate fuori dalla borsa, insieme al panino e allo yogurt, anche un volumetto di poesia, questo è il libro che fa per voi. E non per essere una lettura momentanea, ma per entrarvi dentro il cuore e diventare il simbolo concreto della vostra passione. Perché questo libricino raccoglie tutto ciò che amiamo e che rimpiangiamo con nostalgia.
84 Charing Cross Road è una raccolta epistolare (vera) tra la sceneggiatrice americana Helene Hanff, di base a New York e poi a Hollywood, e la libreria di seconda mano Marks & Co. sita al numero 84 di Charing Cross a Londra. Le lettere, che solcarono l'Oceano per circa vent'anni, iniziano come comunicazioni commerciali legate agli acquisti di Helene (appassionata di libri antichi, purché a basso prezzo, data la sua non brillante situazione economica) e alle spedizioni curate dal libraio Frank Doel, ma si evolvono nel tempo spostandosi in ambiti sempre più personali, per trattare non più (o non solo) di questo o quel volume, ma della bellezza dei libri in generale, dell'incantesimo che sprigionano, dei messaggi cifrati dalle emozioni che essi contengono quando sono già stati posseduti e letti da qualcun altro. 
Il bellissimo risguardo della mia edizione Penguin
All'inizio dello scambio epistolare l'Inghilterra è rappresentata in tutta l'eroicità della sopravvivenza alla seconda guerra mondiale: sono gli anni Cinquanta, e i destinatari delle lettere di Helene vivono una quotidianità misurata e soppesata dal razionamento. I regali che l'americana invia loro, a testimonianza della gratitudine per il lavoro svolto per lei dagli impiegati di Marks & Co., sono uova in polvere, carne, calze di nylon: ed essi rispondono con edizioni pregiate di volumi di seconda mano riemersi dal passato, che nessuno più di Helene saprebbe apprezzare ed amare. Ella scrive il 12 dicembre 1952: "La Book-Lovers' Anthology [Antologia degli amanti dei libri] è uscita fuori dalla carta che l'avvolgeva, nella sua pelle lavorata a sbalzo d'oro e le sue pagine con la punta dorata, senz'altro il libro più bello che possiedo inclusa la prima edizione del Newman. Sembra troppo nuovo e incontaminato per essere stato letto da qualcun altro, ma lo è stato: continua ad aprirsi sui brani più dilettevoli, come se il fantasma del suo primo possessore mi indicasse le cose che non ho mai letto prima."
Ricorrente nelle lettere è il desiderio, da parte di tutti gli scriventi, che Helene possa presto recarsi personalmente alla libreria. Il viaggio in Inghilterra, però, viene rimandato per motivi di lavoro, di traslochi e di carenza economica, e il destino non consentirà ad Helene di conoscere Frank, il libraio che ha riempito la sua vita di bellezza. La lettera in cui la moglie di lui la informa della sua morte, pur conservando la perfezione della scrittura e dei toni squisitamente British (davvero esemplari, rare perle di delizia stilistica; se sapete leggere in inglese, scegliete la versione originale del libro!), fa salire un pizzicore agli occhi....
Insomma, se sul vostro scaffale dei "classici indimenticabili" è rimasto un posticino, anche minimo, riempitelo con 84 Charing Cross Road. Amerete leggerlo e rileggerlo, sottolinearlo e segnare le pagine più belle. E Frank Doel diventerà anche un vostro amico.

P.S. alle mie lettrici Janeites dedico questa citazione da una lettera di Helene:
"You'll be fascinated to learn (from me that hates novels) that I finally got around to Jane Austen and went out of my mind over Pride & Prejudice which I can't bring myself to take back to the library till you find me a copy of my own."

28 agosto 2012

Colazione da Darcy

Della mia ultima, velocissima lettura, Colazione da Darcy di Ali McNamara, non c'è molto da dire. L'ho scelta molto ingenuamente, attratta dal titolo e dall'immagine di copertina che promettevano una storia legata a pensieri di tazze di tè, pasticcini e cioccolato. Negli ultimi tempi le case editrici sono affollate di questo genere di titoli: Un soffio di vaniglia tra le dita di Meg Donohue, Un amore di cupcake di Donna Kauffman, Cupcake Club di Roisin Meaney, Appuntamento al Cupcake Cafè di Jenny Colgan, La collezionista di ricette segrete di Allegra Goodman, Il profumo del tè e dell'amore di Fiona Neill, come se d'un tratto l'editoria si fosse accorta dell'esistenza del cibo nella vita umana. Non ho letto questi romanzi (quello di Goodman l'ho abbandonato molto presto), ma mi piacerebbe avere un vostro suggerimento. Dite che vale la pena procurarseli?
Insomma, in Colazione da Darcy (che traduce esattamente il titolo originale) non c'è traccia né di colazione, né di biscotti. Niente di niente. E' invece la storia di una giovane giornalista che riceve in eredità dalla zia un'isola al largo della costa occidentale d'Irlanda. Il trasferimento di Darcy dalle sofisticate abitudini londinesi al tenore spartano della vita a Tara (un nome poco originale, direi...), che avrebbe potuto essere raccontato con maggiore ingegno, determina un mutamento della sua personalità e dei suoi desideri, incoraggiato anche dall'aura di magia che circonda l'isola. Forse tutta la promessa suggestione si concentra proprio sullo splendido paesaggio, evocato a cornice di una storia piuttosto neutra, che tutto sommato dà l'impressione di essere stata facile da pensare e facile da scrivere. 
L'Irlanda, e in particolare quella parte d'Irlanda, è in verità un angolo di mondo che trasuda bellezza e spiritualità. 

Le isole Aran. Foto di Mara Barbuni (2005)
Una spiaggia lungo il Ring of Kerry. Foto di Mara Barbuni 
Il Connemara. Foto di Mara Barbuni

In Irlanda il vento gonfia onde d'erba lungo i campi, la torba riempie l'aria di odori fragranti, il mare rumoreggia arrotolandosi in candide creste e nebbie di perla abbracciano le pareti scabre delle scogliere. 
Il mio Claddagh Ring
E poi quei lidi rimangono indimenticabili per la loro ricca simbologia e per le loro leggende, che in Colazione da Darcy trovano uno spazio forse troppo esiguo, specie considerando che l'autrice ha trascorso dieci anni nell'isola di smeraldo... La più romantica di queste tradizioni è quella legata al Claddagh Ring, il celebre anello irlandese originario di Galway che riporta intrecciate insieme le allegorie dell'amore, della fedeltà e dell'amicizia. A seconda della mano e del verso in cui lo si indossa, il Claddagh Ring sta a significare le differenti situazioni del cuore: se sulla mano destra, con il cuore rivolto all'esterno esso ricorda che i nostri pensieri sono ancora liberi, e se rovesciato che il nostro cuore è già stato conquistato; sulla mano sinistra esso indica un impegno, fino a diventare, per alcune coppie, una vera e propria fede nuziale.
Il merito di Colazione da Darcy, insomma, è stato più che altro quello di risvegliare memorie incantevoli di un viaggio pieno di bellezza. La storia è graziosa, come dicevo, ma il suo ricordo scivola via in fretta... il tempo di un caffè. 



26 agosto 2012

The Lake of Dreams

Loch Ness, Scotland. Foto di Mara Barbuni (2009)

Il pluripremiato The Lake of Dreams (pubblicato in Italia da Garzanti con il titolo Un giorno mi troverai) dell'autrice best-selling Kim Edwards mi ha riportato alla mente le atmosfere placide e silenziose di Loch Ness, che a dispetto della tradizione e delle leggende è un luogo incantato, fiabesco e di assoluta dolcezza.
La cornice lacustre della storia di Lucy Jarrett non è né casuale né accessoria: la donna ritorna a casa della madre dopo molti anni trascorsi all'estero e rivive, ai margini del lago, la dolorosa vicenda della morte del padre, avvenuta anni prima proprio nelle sue acque, riscoprendo in se stessa i desideri della giovinezza, il senso della tragedia, la necessità dell'abbandono. Il libro racconta la ricostruzione dell'identità di Lucy attraverso la sua ricerca delle radici di famiglia: un fascio di lettere dimenticate e la ricorrenza di alcune simbologie nelle vetrate della cappella locale la spingono verso una quest che approderà non solo alla rivelazione di un mistero ma anche alla ricomposizione degli affari di famiglia. 
La narrazione è abbastanza lenta, e indugia nelle descrizioni dei paesaggi raggiungendo spesso anche una scrittura molto bella: "[...] in the mountains, spring lingered. The hydrangeas were just beginning to boom, their clusters of petals faintly green, bleeding into lavender and blue, pressing densely against the windows of the train" [in montagna perdurava la primavera. Le ortensie avevano appena cominciato la fioritura, e i loro mazzi di petali verde chiarissimo, digradanti nel lavanda e nell'azzurro, premevano densi contro i finestrini del treno]. Il passo del racconto sembra essere volutamente quieto, come se la scrittrice stessa si sia lasciata ammaliare dai ritmi quasi immobili del lago, dai rumori flebili delle onde che lambiscono la riva, dal costante ritorno di un'acqua imprigionata sempre fra le stesse spiagge, in un'eterna sospensione del tempo e dello spazio. Aleggia su questa storia uno struggente senso di precarietà, che è sia fisica che emotiva: Lucy è disoccupata e dubbiosa a proposito del futuro, sua madre sta pensando di vendere la casa di famiglia, e tutta la storia della sua ricerca gira intorno al ritrovamento di un capolavoro di arte vetraia che contiene gli indizi di un enigma che prima di allora nessuno aveva mai pensato a risolvere. 
L'acqua e il vetro, entrambi leitmotiv di questo romanzo, evocano suggestioni di transitorietà e fragilità, che percorrono l'intera lettura e non ci lasciano neanche dopo che si è girata l'ultima pagina, e ai personaggi sembra essere stata data la possibilità di vivere un'esistenza più stabile. Al di là della storia narrata, infatti, al di là delle vicende personali e dei tanti (forse troppi) motivi distribuiti, raccolti, abbandonati e ripresi nel libro, l'immagine che ci perseguita alla fine della lettura è solo quella del lago, silenzioso, oscuro, chiuso nella sua immutabilità.


16 agosto 2012

Il quadro che uccide

Giusto un anno fa ho scoperto una serie di romanzi di Iain Pears (autore del bestseller La quarta verità) di cui ho parlato nel post "Storie dell'arte". Dopo una vera scorpacciata di questi racconti nell'agosto del 2011, favorita dalle lunghissime ore trascorse in auto tornando dal mio viaggio in Inghilterra, avevo accantonato tale cosiddetta "Serie di Jonathan Argyll", e solo questa settimana ho deciso di recuperare il bandolo della matassa e riprendere a seguire le vicende di Jonathan (mercante d'arte) e Flavia (poliziotta impiegata in un fantomatico nucleo per le indagini e il reperimento di beni culturali). E non ho fatto male. 
L'estate, soprattutto nelle sue ore più calde, è per me un ottimo periodo per dedicarmi a gialli, misteri, inganni e simili amenità (subito dopo pranzo Rete4 propone quei veri gioielli che sono gli episodi della serie "Agatha Christie's Poirot", niente di meglio!): e questo Il quadro che uccide, proprio in un momento simile, è stata una scoperta molto positiva. E' forse il migliore dei romanzi della serie che ho letto finora, perché aggiunge un tocco in più alle consuete felici peculiarità della scrittura di Pears. 
Se gli altri libri, infatti, si sono contraddistinti per la trama complessa, la sottile ironia nella descrizione perfetta del personaggio di Jonathan (che lo restituisce ai nostri occhi quasi come un uomo in carne, ossa, spirito e infiniti difetti caratteriali) e la vivacità nella raffigurazione degli ambienti (Londra, Venezia, Roma, Parigi - quali luoghi potrebbero far sognare di più un lettore?), Il quadro che uccide eccelle per la proposta di una storia "gialla" che guarda anche indietro nel tempo, risuscitando le difficili esperienze e le drammatiche conseguenze della seconda guerra mondiale nell'ambito delle relazioni franco-tedesche. Il racconto della tragedia della resistenza e della lotta partigiana e la riflessione sull'impossibilità del presente di fare i conti con il proprio passato strisciano nell'impianto già ben strutturato della detective story classica e vi si integrano alla perfezione, emergendo ad una posizione prioritaria proprio nel momento finale, dello scioglimento della narrazione (dolorosamente non catartico) e della soluzione dell'enigma degli omicidi. Questa divagazione, così ben costruita da poter essere quasi estrapolata nella forma di un racconto breve indipendente, conferisce al romanzo una sorta di dignità letteraria cui gli altri della serie, nati molto probabilmente con altre intenzioni, non assurgono. 
Da narratore di prim'ordine qual è, Iain Pears ha scritto storie che sono ben interconnesse, ma anche indipendenti l'una dall'altra. In definitiva, se non vi va di procurarvi una mezza biblioteca (i libri della serie sono sette) vi consiglierei di leggere il primo, Il caso Raffaello, che ci presenta Jonathan e ce lo fa conoscere, e Il quadro che uccide, molto apprezzabile, forse, anche da chi diversamente da me non ama sprofondare nelle storie di Hercule, Sherlock, e dei loro esimi colleghi.